Boyhood è un capolavoro. L’hanno già detto in tatti, anzi l’hanno
già detto tutti, e io sono solo l’ultimo dell’elenco. Ma lo faccio con esultanza, e
senza la sensazione di ripetere una cantilena che altri hanno inventato:
“Boyhood è un capolavoro!”. Il film ha il punteggio senza precedenti di 100 su
Metacritic, e le sue recensioni su Rottentomatoes sono “fresche” al 99% (si sono voluti distinguere solo Phateos e RedEye, probabilmente per il puro gusto di distinguersi... e che io e altri lo sottolineassimo). È
anche un successo commerciale: costato appena 4 milioni di dollari, alla
vigilia di una stagione dei premi che lo vedrà sicuro protagonista, ne ha già
incassati nel mondo più di 40.
È un film come non ne erano mai stati fatti prima e come
probabilmente non ne verranno fatti mai più, ragione per cui la stessa
definizione di “film” gli sta un po’ stretta. Boyhood è... un’esperienza. Lo è
stata per chi l’ha realizzato, e lo sarà sicuramente anche per gli spettatori
che lo vedranno. È stato girato in 12 anni, 12 estati durante le quali il
regista, sceneggiatore e produttore Richard Linklater si è incontrato con il
cast per appena una settimana di riprese, con un copione che è andato modificandosi e completandosi al passare delle stagioni. Segue la storia di Mason – Ellar Coltrane – dall’età di
6 a quella di 18 anni. Oltre a lui ci sono la madre – che non ha un nome
e si chiama, come tutte le nostre madri, semplicemente Mamma, interpretata da
Patricia Acquette – il padre, anche lui solo Papà, Ethan Hawke – e la sorella
Samantha – Lorelei Linklater, figlia del regista – che con Mason crescono,
invecchiano e cambiano, in quel fluido continuo, terribile e magnifico che
prende il nome di vita.
Boyhood parla di questo. Il tema e la storia sono questi.
Nulla di sconvolgente, nessuno scienziato che scopre i buchi neri e nessun
matematico che decifra i codici nazisti vincendo di fatto la II Guerra Mondiale. Parla
della vita, di quanto sia bello e brutto crescere, di quanto sia bello e brutto
veder crescere i propri figli e invecchiare, e di come le persone che incontriamo
determinino il nostro percorso, nel bene e nel male. Proprio per questo motivo, proprio perché le vicende e i temi non sono nulla di nuovo o socialmente rilevante
(fatto salvo il poco-più-che-accenno alle questioni dell’alcolismo e della
violenza domestica), ha dell’incredibile che ne sia uscito un film tanto
avvincete, scorrevole – le quasi tre ore passano in un batter di ciglia –
verosimile, mai retorico e chi più ne ha più ne metta. Soprattutto in questa accezione, poi, si giustifica
l’utilizzo di quella parola, “capolavoro”, che tante volte è stata spesa a
proposito del film. Boyhood è un capolavoro - con quesa sono tre volte che lo ripeto! - perché pur raccontando ciò che tutti conosciamo alla perfezione, non annoia né infastidisce mai, e ancor meno dà la sensazione che le sequenze di cui si compone siano "già viste" o "già sentite".
Il potenziale da premi c’è tutto, e la pellicola è al
momento la grande favorita soprattutto per gli Oscar al Miglior
Film, Regia, Sceneggiatura e Attrice non protagonista (Arquette). Probabili
anche le nomination all’Attore non protagonista (Hawke) e al Montaggio, mentre
c’è appena il barlume di una speranza per l’esordiente Ellar Coltrane
nell’affollatissima categoria degli Attori protagonisti.
Interessante la colonna sonora, che percorre 12 anni di grandi
successi (Yellow e Crazy su tutti) e di pezzi meno famosi ma molto
azzeccati (Hero, dei Family of the Year). Non includendo un tema musicale originale, non può ambire a
candidature per ciò che riguarda i premi cinematografici, ma avrà modo di
rifarsi ai Grammy.