30.10.14

Still Alice - La recensione

Di Simone Fabriziani

Immaginate di dover essere costretti ad assistere e a subire le vessazioni fisiche e psicologiche di un individuo affetto dal morbo di Alzheimer ai primissimi stadi e vederlo sgretolarsi e pian piano scomparire sempre di più, senza poter far nulla, totalmente impotenti. Questa è la sensazione che lo spettatore ha di fronte al delicato Still Alice diretto e scritto da Richard Glatzer (autore di documentari come "Grief", Quinceanera" e "The Last of Robin Hood") e Wash Westmoreland, suo collaboratore di lunga data.


Il film è liberamente ispirato al romanzo omonimo di Lisa Genova, vero e proprio manifesto contemporaneo sulla consapevolezza e sulla lotta precoce al morbo di Alzheimer negli individui sani di mezza età, tema molto caro al regista Glatzer anch'egli affetto dal morbo e che negli ultimi due anni ha scritto e diretto la pellicola combattendo una malattia sempre più invalidante.
Ad illuminare il film con la sua straordinaria bravura è la magnifica Julianne Moore, qui Alice Howland, stimata Professoressa di Linguistica della Columbia University e moglie e madre amorevole ed esemplare che da banali ed invisibili sintomi le verrà diagnosticato un primissimo stadio del morbo di Alzheimer deciso a non arrestarsi, bensì solamente a peggiorare; il mondo crollerà addosso alle certezze e alle sicurezze di Alice e gli equilibri della sua vita quasi perfetta e della sua famiglia inizieranno a deteriorasi sempre di più, proprio mentre attimo dopo attimo, giorno dopo giorno la malattia rende la sua vita un inferno da cui Alice si allontana sempre maggiormente...

Mirabilmente concepito come un asciutto e delicato manifesto cinematografico sulla consapevolezza generale che la società contemporanea ha del morbo di Alzheimer, la pellicola di Glatzer e Westmoreland curiosamente non cade nei buonismi e nelle leziosità troppo spesso tipiche dei film-manifesto anche e soprattutto grazie alla misurata, delicata e totalmente dedicata performance di una Moore perfetta accompagnata da un cast di contorno, solamente all'apparenza accessorio, di tutto rispetto: se Alec Baldwin non sfigura come amorevole uomo di famiglia, sorprende invece Kristen Stewart, una scapestrata ma misuratissima figlia che in fuga dalla realtà familiare sarà alla fine l'unica che dovrà rimettere assieme i pezzi di una vita che sfugge sempre più dalle fragili mani di mamma Alice.


Film dunque manifesto di una realtà clinica che purtroppo affligge e deteriora inesorabilmente la percezione della realtà e di cosa e chi ci sta accanto senza però gridarlo; funziona anzi come onesto ma commovente ritratto di una lenta caduta nell'oscurità di una donna che della vita ha sempre analizzato ed amato la struttura intrinseca della parola, della linguistica appunto e che dell'amore per la  comunicazione (e in senso generale, l'amore per i sui cari) perde sempre più consapevolezza per mai tornare più alla luce... senza ruffianate. E che forse nel panorama cinematografico contemporaneo è una gran cosa.

VOTO: 3/5