Big Eyes – La recensione

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Di Simone Fabriziani

Anni ’50, una giovane pittrice statunitense dal discutibile talento artistico parte in solitaria con la figlia dopo una delusione amorosa e si trasferisce sulla West Coast per cercare fortuna e un lavoro che valorizzi la sua passione per l’arte e la pittura; a San Francisco troverà pane per i suoi denti e un pò di fortuna grazie all’incontro con l’agente immobiliare (e pittore nel tempo libero) Walter Keane.
Non soltanto Walter e Margaret finiranno per sposarsi, ma i ritratti di lei finiranno per avere un graduale successo nei circoli artistici della West Coast; tutto sembra procedere bene per la coppia, fino a quando Walter decide di prendersi la paternità artistica dei ritratti dai “grandi occhioni” di Margaret.

Il nuovo lungometraggio diretto da visionario Tim Burton risulta come un vero e proprio passo artistico indietro per l’autore che da sempre ci ha abituati a mondi e visioni grottesche e gotiche; qui siamo nei paraggi del convenzionale biopic di due outsider che prima la società ha trattato con indifferenza, poi che ha invece portato al successo grazie ad una lunga serie di ritratti dai grandi occhi che nel panorama artistico contemporaneo sembrano aver fatto scuola.

Il fulcro vitale di questo racconto di riscatto e di inno alla valorizzazione dell’arte contemporanea e i suoi meccanismi sono la coppia inedita Amy Adams e Christoph Waltz, una dimessa e l’altro teatrale e gigione orco in famiglia che tutto farà pur di vendere i ritratti di Margaret e di creare un impero del commercio d’arte come mai si era visto in precedenza; i due finiranno poi la resa dei conti in un aula di tribunale dove si decideranno le sorti della paternità dell’opera di Margaret in quella che alla fine sembra più una parabola mascherata da profondo affetto da parte del regista californiano per i piccoli, grandi artisti del panorama contemporaneo troppo spesso osteggiati da una macchina dell’arte legata al commercio e alla convenzionalità, proprio come si sarebbe dovuto sentire il giovane Burton agli inizi della sua carriera cinematografica costellata di piccolo lavori gotici e grotteschi inizialmente osteggiati e non capito dall’industria hollywoodiana del tempo.

Per quanto la struttura narrativa del film sia come detto in precedenza totalmente convenzionale e priva dei guizzi e degli stilemi tipici del cinema burtoniano, il film è quanto di più personale ed affettuoso il regista provi per i suoi inizi da artista anticonvenzionale a tutto tondo, un onesta parabola sulla difesa e la riabilitazione (di Margaret Keane nel film, di Burton nella realtà) dell’artista incompreso troppo spesso ingurgitato dalla mercificazione e dell’incomprensione di un panorama artistico, quello del film e quello contemporaneo a noi spettatori, sotto forma di un onesto ma non graffiante biopic sorretto da due giganti della recitazione contemporanea.

VOTO: 3/5


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