18.10.17

Lost in Translation: Christine di Antonio Campos

Di Pietro Lafiandra

Il corpo di Christine, una reporter ventinovenne della piccola stazione televisiva WXLT-TV di Saratoga (California), si imprime sulla celluloide, si moltiplica sui tubi catodici nello studio dell’emittente, si sdoppia sugli specchi di casa. Il suo ventre viene fotografato, filtrato, penetrato da un ecografo che rileva al suo interno una ciste ovarica e che predice la futura impossibilità della donna di diventare madre. 

Attraverso i vetri, attraverso i riflessi, ma soprattutto attraverso lo schermo televisivo, Christine sembra una matrioska in una sala degli specchi: presenta i suoi stessi servizi, li monta, guarda e riguarda la sua immagine che si ripete perpetuamente. Christine è giornalista, cronista, montatrice, presentatrice. È la figlia rancorosa di una donna naive con cui, diversamente nei modi, ma con conseguenze simili a “La Pianista” di Michael Haneke, si trova costretta a condividere l’appartamento, pagando l’affitto per entrambe. Christine è una ragazza in cerca d’amore. Una donna ambiziosa ma non arrivista. Una giovane frustrata e in crisi d’identità alla ricerca della realtà dietro l’immagine, del vero dove tutto ciò che la circonda sembra finto. 

 La vera storia di Christine Chubback è nota ai più ed è parte integrante della cultura mass mediale statunitense: il 15 luglio 1974 la donna, durante la conduzione di un telegiornale, si spara un colpo alla tempia per poi morire in ospedale. Tra aneddoto e testimonianza diretta, quello che è il primo suicidio televisivo vive ai confini tra reale e finzionale, documentazione e rappresentazione, ricostruzione e riproduzione: perché della storia di una donna che decide di suicidarsi in diretta, incistando con un atto definitivo il suo corpo all’interno del media - quasi le due dimensioni formassero una realtà immanente - non restano neanche le immagini, ma solo le millantazioni, i fake, i dibattiti sul web. Le intenzioni di Antonio Campos, giovane regista newyorchese, vanno però ben oltre il recupero del materiale d’archivio; l’obiettivo è piuttosto quello di costruire una narrazione volta alla ricerca del profondo dolore di una donna, un dolore che rischia di restare non udito sotto l’eco di un atto estremo. Ancora, la realtà dietro l’immagine. Se la forma documentario avrebbe scongiurato (ma solo parzialmente) il rischio di un eccessivo ricamo narrativo, l’omissione di dettagli più o meno rilevanti, la rappresentazione ha il grosso pregio di non considerare il suicidio della donna come materiale di partenza, causa della ricostruzione di una vita, ma piuttosto come la conseguenza della sofferenza intima ed emotiva della protagonista. 

Difficilmente un film sulla vicenda Chubback avrebbe avuto lo stesso impatto emozionale se soggetto ad un trattamento documentaristico, in quanto l’episodio compie un movimento inverso rispetto a quello dei grandi eventi mediali che hanno sconvolto gli Stati Uniti del secondo novecento e dei primi del duemila: con il video di Zapruder dell’omicidio Kennedy, il suicidio di Thích Quảng Đức, il monaco buddhista che si diede fuoco per manifestare contro la guerra in Vietnam, e le riprese dell’undici settembre la sensazione generale, come riporta Susan Sontag nel saggio Davanti al dolore degli altri, era quella di un sogno, della realtà che subiva una mutazione ontologica e si avvicinava alla finzione, il suicidio Chubback, pensato per il, costruito nel e avvenuto sul media è molto più simile alla finzione, all’artificio che sfocia nella realtà, e che proprio nella finzione trova de facto la sua modalità espressiva più congeniale. 


È la stessa protagonista a sottolineare la dimensione patinata, estetica della sua morte - tanto surreale da portare gli spettatori sintonizzati su WXLT-TV a chiamare l’emittente per accertarsi della natura dell’evento - e lo fa attraverso la spettacolarizzazione della propria morte con scelte dialettiche ben definite, rivolgendosi al pubblico e guardando in camera, inserendo quindi il proprio suicidio nello schema dell’informazione televisiva: In keeping with Channel 40's policy of bringing you the latest in 'blood and guts', and in living color, you are going to see another first—attempted suicide (In linea con la recente politica di Channel 40, "sangue e budella", state per vedere a colori un altro tentativo di suicidio). Con questa frase Christine non solo si fa artefice di un cortocircuito tra quelle che sono le attese dell’audience nei confronti del mezzo e quella che è la prosecuzione della notizia, bensì, trattando la propria stessa morte alla stregua di un servizio sensazionalistico, stigmatizza il modus operandi della sua stessa emittente televisiva, le logiche scandalistiche dei servizi che le sono stati commissionati e che l’hanno portata allo scontro con l’editore. Così, tutti gli elementi del film di Antonio Campos, costituiscono un dialogo tra finzione e realtà, superficie e contenuto. Christine nasconde le sue reali necessità e intenzioni dietro alle esigenze lavorative: intervista un mercante d’armi per poi comprare la semiautomatica con cui si ucciderà e approccia una coppia di fidanzati con domande sulla loro relazione, vomitando successivamente addosso alla madre le sue difficoltà amorose; il suo corpo (quello di Rebecca Hall) è il corpo di una donna giovane e bella, ma è anche contenitore di un oggetto estraneo, la ciste che si manifesta con crampi all’addome e un’ improvvisa emorragia, tanto simile ai repentini attacchi d’ansia e pianto sintomatici del suo stato depressivo. La cena che le viene offerta da un collega si rivela un mero espediente per edulcorare la notizia della promozione da lui ottenuta proprio ai danni della protagonista. 
Il tono del film è inizialmente scanzonato, vagamente comico, leggero, ma al suo interno si annida la tragedia, il cambio di tenore, l’alternanza tra stasi e i pochi inserti di montaggio ritmico. Tutto è camuffato, travestito, reso altro da sé, a sottolineare con un divertissement la tragedia di un’umanità sofferente, del dolore che, sotto forma di pistola, Christine nasconde in uno dei suoi burattini a mano, non riuscendo a comunicarlo. Proprio i burattini risultano essere strumenti di auto rivelazione dell’interiorità di Christine che, abbandonato lo schermo fisico a favore della sua ricostruzione scenografica, attraverso dei piccoli spettacoli, con i pupazzi parla implicitamente ad un pubblico di ragazzi disabili delle sue paure relazionali, del suo bisogno di tenerezza e dolcezza infantile. 

L’unico mezzo di comunicazione possibile per Christine è quello della simulazione attraverso i pupazzi, nascondere la propria immagine dallo schermo televisivo per riacquistare il dialogo caldo e umano che le viene più volte impedito dall’editore e che le è impossibile praticare con i colleghi, vivendo con questi rapporti esacerbati dalla competitività e dal desiderio di prevalere sull’altro per ottenere il favore di un grande editore in cerca di personale. Al dialogo sostituisce quindi il monologo o il soliloquio, come quello fotografato da uno stacco tra due inquadrature, quando da un primo piano che la vede ripresa attraverso un televisore a tubo catodico, intenta a intervistare Nixon sullo scandalo watergate, si rivela il carattere farsesco della conversazione, in realtà malinconico gioco tra lei ed una sedia vuota: Christine sola con la sua immagine, intrappolata nella macchina.