Di Giuseppe Fadda
“Va bene, mi sposerò. Lasciami
essere una concubina. Non è questo il destino di ogni donna?” dice Songlian (Gong
Li), con viso inespressivo e gli occhi fissi davanti a sé mentre una lacrima solitaria
le scorre sulla guancia. È con questo straziante primo piano che si apre Lanterne Rosse, il capolavoro del
cinema cinese diretto da Zhang Yimou.
Il film è ambientato nel 1920, nel
cosiddetto periodo dei signori della guerra. Songlian è una studentessa
universitaria la cui vita è sconvolta dalla morte del padre: non avendo le
risorse per poter proseguire la sua educazione, la ragazza accontenta la sua
matrigna accettando di sposare Chen Zuoqin (Jingwu Ma), discendente di un’antica
dinastia. L’uomo ha già tre mogli: Yuru, la prima, è ormai una donna di mezza
età che passa la maggior parte del giorno in un ritiro solitario nei suoi
appartamenti; Zhuoyun, la seconda, è una donna all’apparenza mite e gentile;
Meishan, la terza, è un ex-soprano ancora molto attraente. Il padrone di casa fa
appendere delle lanterne rosse fuori dagli appartamenti della moglie con cui ha
intenzione di passare la notte: la moglie prescelta può disporre per quel
giorno di numerosi privilegi, tra cui un massaggio ai piedi e la possibilità di
scegliere il menu. Songlian si rende conto ben presto che la vita al palazzo è
una continua, sottile competizione tra le mogli per poter godere di quel minimo
potere che viene loro concesso.
Zhang Yimou iniziò la sua
carriera cinematografica come direttore della fotografia, collaborando con
registi del calibro di Chen Kaige. Solo nel 1987 esordì alla regia con il film
Sorgo rosso, che gli fruttò l’Orso d’oro al Festival Internazionale del Cinema
di Berlino. Nei suoi film egli pone grandissima cura e attenzione all’apparato
estetico e visivo, e questo non è mai stato così evidente come in Lanterne Rosse. In primo luogo, il film
possiede un’ineccepibile eleganza formale: le inquadrature sono quasi sempre
perfettamente simmetriche, ogni frame è una composizione studiata e armoniosa,
una vera e propria opera d’arte. Ma lo stile visivo del film non è un fatto
puramente estetico, ha anche una grandissima portata comunicativa. Le
inquadrature più frequenti sono campi lunghi, in cui i personaggi sono
inghiottiti dalla fredda, imperiosa magnificenza della scenografia. E anche nei
momenti più intimi, gli attori non occupano quasi mai l’intero frame e ancora
più di rado si toccano. Attorno è sempre presente dello spazio vuoto, che in
maniera impercettibile sottolinea la solitudine e l’incomunicabilità che permea
l’atmosfera del palazzo.
È particolarmente affascinante il fatto che il padrone di casa non sia quasi mai visibile: egli è inquadrato o da molto lontano oppure attraverso tende e veli. Non è tanto un personaggio quanto una presenza, la personificazione dell’oppressione e della tradizione. È fortemente simbolico anche l’uso del colore: prevalgono in numerose scene colori freddi e asettici, sui toni del grigio. L’unico colore caldo è il rosso delle lanterne, ma in questo caso non assume un’accezione umana e rassicurante: esprime invece una sensazione costante di irrequietezza, di minaccia, un monito costante dei giochi di potere che avvengono nel palazzo. Il lavoro compiuto dal regista e dai direttori della fotografia Lun Yang e Fei Zhao è l’esempio perfetto di come l’apparato visivo di un film non è funzionale semplicemente all’estetica ma gioca anche un ruolo chiave nell’espressione dei suoi contenuti.
È particolarmente affascinante il fatto che il padrone di casa non sia quasi mai visibile: egli è inquadrato o da molto lontano oppure attraverso tende e veli. Non è tanto un personaggio quanto una presenza, la personificazione dell’oppressione e della tradizione. È fortemente simbolico anche l’uso del colore: prevalgono in numerose scene colori freddi e asettici, sui toni del grigio. L’unico colore caldo è il rosso delle lanterne, ma in questo caso non assume un’accezione umana e rassicurante: esprime invece una sensazione costante di irrequietezza, di minaccia, un monito costante dei giochi di potere che avvengono nel palazzo. Il lavoro compiuto dal regista e dai direttori della fotografia Lun Yang e Fei Zhao è l’esempio perfetto di come l’apparato visivo di un film non è funzionale semplicemente all’estetica ma gioca anche un ruolo chiave nell’espressione dei suoi contenuti.
Nel corso della storia si possono trovare numerosi esempi di pellicole incentrate sull’oppressione della libertà e della sessualità femminile, ma quello che rende Lanterne Rosse un’opera così devastante è la sua totale assenza di speranza: il film offre un ritratto crudo e brutale di come una società patriarcale non solo opprime le donne, ma le spinge anche alla reciproca diffidenza e sfiducia eliminando ogni tipo di solidarietà e sorellanza. Il respiro del film è molto ampio e meditativo, consentendo allo spettatore di immedesimarsi lentamente nella tragedia della sua protagonista e permettendo ai personaggi di svilupparsi nella loro pienezza.
Il cast, prevalentemente femminile, è spettacolare. Tra gli attori comprimari spiccano Lin Kong, che mostra in egual misura il rancore e il dolore della serva Yan’er, e Caifei He, il cui affascinante ritratto di Meishan rivela continue soprese sul personaggio. L’attrice gioca con la percezione dello spettatore per poi sconvolgerla nella scena successiva, creando un personaggio ricco di sfaccettature. Ma è l’interpretazione di Gong Li il cuore di Lanterne Rosse. L’attrice ha uno dei visi più espressivi della storia del cinema e la sua capacità di esprimere migliaia di emozioni con il solo sguardo eguaglia quella delle star del cinema muto. E l’evoluzione del personaggio avviene proprio nei suoi occhi, dapprima quelli innocenti e inesperti di una ragazzina, poi quelli attenti, circospetti e freddi di una donna che lotta per la sua sopravvivenza e infine quelli vuoti e sconfitti di una vittima impotente, senza più futuro né voglia di vivere.