La casa di Jack – La recensione del film di Lars von Trier

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Di Massimo Vozza

A 5 anni (uno in più se si considera la distribuzione italiana) dal provocatorio Nymphomaniac, Lars von Trier torna in sala con La casa di Jack, un vero e proprio viaggio psicologico che segue lo sviluppo di un serial killer attraverso 5 incidenti; ma quest’opera è anche un viaggio attraverso il cinema del regista danese stesso, arricchito da autocitazioni, parallelismi con le sue opere passate e la presenza di alcune attrici con le quali ha già lavorato in passato (Uma Thurman, Siobhan Fallon Hogan e Sofie Gråbøl), qui nei ruoli di sfortunate donne che incontrano Jack sulla loro strada.

Raccontare e soprattutto omaggiare la propria autorialità, oltre che il protagonista, se da una parte entusiasma dall’altra dà l’impressione di assistere a qualcosa di già visto, un ripetersi che finisce con lo stupire meno rispetto alle aspettative. Lo stesso plot twist del film, che riguarda il viaggio da moto a luogo che fa da cornice alla vicenda, compiuto dal protagonista, interpretato da un eccellente Matt Dillon, e da un misterioso uomo, interpretato dal da poco scomparso Bruno Ganz che ci regala ancora una volta un’interpretazione degna di nota, risulterà ai più prevedibile.

Quello che non si può sicuramente rinfacciare a von Trier è una coerenza estetica (l’utilizzo frenetico della macchina a mano ad esempio, l’uso continuo della musica e di immagini di repertorio) e strutturale (la precedentemente sperimentata divisione a episodi, l’incentrare il film su un dialogo a due come una sorta di confessione per giustificare il racconto della vicenda), le intellettuali digressioni continue, e il saper porre al centro della storia al solito personaggi particolarissimi e rischiosi, ancora una volta ben scritti, con i loro bagagli psicologici e culturali che li arricchiscono e rendono interessanti.
Purtroppo però non si può dire lo stesso dell’impatto emotivo: seppur vi siano i presupposti, La casa di Jack non ci colpisce mai allo stomaco così forte da spingerci quasi a smettere la visione o al non ripeterla più per tanto tempo, come altri film del cineasta hanno fatto in passato, e non perché non manchino la violenza, qui trattata come un’opera d’arte, la tensione che precede gli omicidi oppure immagini forti in generale e un certo humor nero da farci a tratti imbarazzare, ma sempre per quella prevedibilità già citata che rende ogni elemento più sopportabile del solito. Certamente va in crescendo la furia omicida del personaggio, costantemente vissuta dal suo punto di vista, però arrivati alla fine non si sa neanche cosa augurarsi per Jack, se non forse indifferenza. “Per molti anni ho girato film su donne buone, ora ho fatto un film su un uomo malvagio” ha dichiarato lo stesso Lars von Trier, il che ci va benissimo, peccato che avremmo voluto che ci prendesse ancora una volta alla sprovvista, facendoci magari sentire una forte empatia inaspettata con il protagonista, facendoci provare compassione per il diavolo, con lo scopo di dilaniarci emotivamente ancora una volta.

VOTO: 7/10

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