Dumbo – La recensione del live-action Disney diretto da Tim Burton

Di Simone Fabriziani

Holt Farrier (Colin Farrell), un ex divo del circo, trova il suo mondo sconvolto al rientro dalla guerra. Max Medici (Danny DeVito), il proprietario di un circo, gli offre la possibilità di prendersi cura di Dumbo, un elefante appena nato le cui grosse orecchie rappresentano un’attrazione. Quando però i bambini di Holt scoprono che Dumbo può volare, il persuasivo impresario V.A. Vandevere (Michael Keaton) e la trapezista Colette Marchant (Eva Green) tentano di trasformare l’animale in una star. Arriva nelle sale italiane giovedì 28 marzo con Walt Disney Pictures il Dumbo diretto dall’immaginifico regista Tim Burton.


Se il regista americano è stato il primo branded name ad aprire le danze della moda tutta millennial della Disney di riproporre sul grande schermo versioni in live-action dei propri classici con lo sbruffone e poco ispirato Alice in Wonderland del 2010, Burton ci riprova con l’adattamento in carne ed ossa del classico di animazione del 1941 che ha fatto versare lacrime di commozione ad intere generazioni.

Ben oltre il racconto del tenero elefantino volante in cerca dell’affetto della madre, il Dumbo di Tim Burton ne espande le prerogative narrative del film originale e infonde il lungometraggio di umanità nei volti dei protagonisti dal vivo, la famiglia che si crea progressivamente attorno al prodigioso e affettuoso elefante dalle tenere orecchie lunghe. A donare veridicità al viaggio di Dumbo, prendendo scorciatoie del racconto differenti rispetto al lungometraggio del 1941, una galleria di interpreti che ritornano a formare sodalizio con Burton e il suo cinema: da Danny DeVito ad un divertito e gigione Michael Keaton (i due attori tornato a recitare assieme dopo, guarda caso, Batman – Il ritorno del 1992, dello stesso Burton), fino alla nuova musa francese Eva Green, leggiadra trapezista passata con disinvoltura nel cinema recente di Burton da Dark Shadows al meno fortunato Miss Peregrine – La casa dei ragazzi speciali.


Ma badate bene: il Dumbo di Tim Burton non rifugge dai classici stilemi della produzione cinematografica della Walt Disney Pictures, ne segue passo passo l’aspetto favolistico e conciliante, privo della forza e della magia che ha reso il titolo originario degli anni ’40 un capolavoro di denuncia animalista impareggiabile. Eppure in questo live-action c’è qualcosa di più.
Il Dumbo di Burton è probabilmente il miglior lungometraggio diretto dal regista americano degli ultimi, incostanti dieci anni a questa parte; lungi dall’essere un ritorno alla forma (è un canonico live-action perfettamente inscritto nei codici del linguaggio Disney, come dicevamo), è a tutti gli effetti un atto di amore incondizionato verso la poetica dei freak e degli emarginati che da sempre ha permeato la filmografia del cineasta; a tessere l’ode ai dimenticati del regista è la lettera d’amore verso la vita e gli universi paralleli del circo. Ricettacolo di stranezze ed unicità , il circo è il luogo cinematografico che più ha toccato Burton nell’inconscio sin dagli esordi sul grande schermo, fino alle incursioni più recenti ( e qui i paralleli di concetto con il cinema circense di Fellini si sprecherebbero). Nella contrapposizione tra vita circense e manifattura posticcia della “Dreamland” di Vandermere (ma si può leggere l’evanescente Wonderland, addirittura l’effimera Disneyland), è lì che si  innalza in volo il sogno conciliante della restituzione di una famiglia, unione di più elementi dove poter veramente essere sé stessi , senza il timore del giudizio o della manipolazione. Una madre, un circo, una famiglia.
VOTO: 7/10


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