Mindhunter – La recensione della seconda stagione della serie Netflix diretta da David Fincher

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Di Gabriele La Spina

Due anni dopo il suo rilascio su Netflix, torna la serie televisiva creata Joe Penhall, che porta alla regia l’altisonante firma di David Fincher. Il regista di Fight Club, produttore della serie, si è fatto tuttavia affiancare alla direzione degli episodi anche da Andrew Dominik, suoi Chopper e Cogan, e da Carl Franklin, regista di cult come Out of Time. 

Mindhunter espande i confini marcati con la sua prima stagione, proponendo un perfetto valzer di storyline mirate all’approfondimento dei caratteri dei tre personaggi principali, e all’introduzione di storie di cronaca nera realmente accadute negli USA. Seguiamo le vicende degli agenti dell’FBI Holden Ford e Bill Tench, che continuano le interviste ai più celebri serial killer (termine da loro stessi coniato) affiancati dalla psicologa Wendy Carr. La prima stagione si concludeva con il climax del malore di Holden dopo aver incontrato da solo Edmund Kemper; si riprende da qui, con la scoperta che l’agente soffre di attacchi di panico; ma fa da prologo a ogni episodio la genesi di colui che sarà BTK, un killer che gli agenti studieranno soprattutto nel corso dei primi episodi e il cui profilo verrà man mano approfondito attraverso le dichiarazioni di altri serial killer in carcere, dal ritorno di Kemper all’incontro con Charles Manson, interpretato da Damon Herriman, calatosi quest’anno negli stessi panni già per Quentin Tarantino in C’era una volta a… Hollywood. Eppure la mainline della stagione diverrà ben presto quella degli omici di quasi trenta bambini afroamericani ad Atlanta.
Si nota come storicamente alla fine degli anni ’70 negli USA, il lavoro di ricerca dell’FBI divenga sempre più riconosciuto, e quanto influenzi, nonostante la riluttanza, il lavoro della polizia. Negli omicidi di Atlanta, Holden si ritrova a fronteggiare dei radicati pregiudizi di tipo razziale, da ambo le parti, e un’ignoranza limitante nei confronti dello studio psicologico dei profili criminali, in tempi non abbastanza maturi. Il lasso temporale affrontato dalla stagione stavolta è ben più ampio, ricoprendo prima gli anni di attività di BTK, e poi la lunga scia di omicidi che ha afflitto Atlanta, durata circa tre anni.
Se della psicologa Wendy affrontiamo la tematica dell’accettazione degli omosessuali in quegli anni, il suo conflitto etico, dalla sempre misurata Anna Torv, è ben più interessante il racconto legato a Bill, che vede in suo figlio la materializzazione di ogni studio compiuto e ogni riscontro sull’infanzia dei serial killer, le loro dichiarazioni sembrano prendere vita nel figlio Brian coinvolto non direttamente a una tragedia del suo quartiere. L’ottimo Holt McCallany riesce ad essere una presenza predominante degli episodi, ma è il lavoro di Jonathan Groff a primeggiare nel rendere Holden. Non si tratta forse di una casualità che il protagonista prenda il nome di uno dei personaggi più celebri della letteratura americana, Holden Caulfield del romanzo di J.D. Salinger, “Il giovane Holden”, outsider per eccellenza, che ha un rifiuto per la società, e ha oltretutto ispirato gli assassini di John Lennon e del presidente Reagan. In Mindhunter il protagonista si ritrova ancora incompreso, ritenuto indomabile, e spesso impotente di fronte alle madri distrutte di Atlanta. Groff riesce con delicatezza e la giusta dose di freddezza a rendere un personaggio degno della Clarice Sterling de Il silenzio degli innocenti.
Le regie di Fincher, Dominik e Franklin si mescolano in modo omogeneo nel corso degli episodi. Se vediamo un uso di controluce su figure intere, tipiche del regista di Panic Room; a Franklin vengono soprattutto affidati gli episodi di Atlanta, con vibranti sequenze che coinvolgono la popolazione, dal corteo funebre, con la già iconica corsa di Holden con una croce bianca; alla riunione cittadina con il sindaco. L’atmosfera a volte asettica, altre macabra e creepy, della stagione, non fa mai una piega; riuscendo a coinvolgere pienamente dando giustificazione alle sceneggiature degli autori, caratterizzate da una meticolosa ricostruzione dei fatti realmente accaduti rafforzati dall’anima dei personaggi, individui che faranno la storia della criminologia, ma che portano con loro il fardello del sapere.
Con la sua seconda stagione Mindhunter si conferma ancora una volta come miglior produzione del servizio di streaming americano, riuscendo a superare il già notevole risultato ottenuto con la stagione rilasciata nel 2017. Coerente, suggestiva e avvincente, la stagione regala rilevanti riflessioni e personaggi difficili da dimenticare, complice un cast accuratamente scelto. Un rinnovo per la terza stagione è quasi d’obbligo, visto il potenziale sconfinato della serie.

VOTO: 10/10


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