Ci sarebbe un fil rouge che unisce la maggior parte dei titoli in concorso a Venezia 76: la famiglia.
Che si tratti di rapporti di coppia o tra genitori e figli, questo fulcro narrativo si ripropone
prepotentemente, perfino nel nuovo film di Pablo Larraín, di ritorno al Lido dopo il successo di
Jackie (vincitore della miglior sceneggiatura a Venezia 73).
In questi anni il regista cileno ci ha
abituati a film nei quali il lavoro di scrittura in tutte le sue fasi (sceneggiatura, girato e montaggio)
agisce sulla narrazione in maniera sperimentale e in Ema probabilmente spinge l’acceleratore
ulteriormente, regalandoci un’opera che, mi sento di scommettere, dividerà il pubblico.
La praticamente esordiente Mariana Di Girolamo (al primo ruolo cinematografico da protagonista)
interpreta stupendamente Ema, una giovane ballerina che decide di separarsi dal più maturo
Gastón (Gael García Bernal) dopo aver rinunciato a Polo, il figlio che avevano adottato; inizia così
una serie di scene di vita sregolata della ragazza come sregolata appare la forma narrativa scelta
dal regista cileno per raccontare questa donna che cerca di colmare non solo il suo senso di colpa
ma anche la mancanza del figlio. Non è tanto la mancanza di linearità (davvero sporadica stavolta)
a dare questa sensazione ma la mancanza di una spiegazione univoca e chiara dei fatti e delle
azioni per gran parte dei 102 minuti di durata, dando l’impressione di un lavoro a tratti
sconclusionato.
Nonostante l’indubbia incapacità genitoriale della coppia, Larraín porta avanti una storia dove l’empatia con la protagonista è tale da sostenerla durante ogni gesto apparentemente insensato e ogni stranezza: la macchina da presa stessa segue prepotentemente Ema obbligandoci a sentirla vicina, familiare, anche nei momenti più intimi (soprattutto carnali); le innumerevoli inquadrature che la vedono protagonista e parte delle ottime scelte fotografiche adottate ricordano naturalmente Jackie, altro film dove la protagonista femminile dava il titolo all’opera. C’è però una differenza sostanziale: mentre il personaggio della Portman, anche essa madre, tenta di colmare il vuoto del marito costruendo un’immagine dell’uomo da tramandare ai posteri, dando così alla fine l’illusione che non tutto ciò al quale si ha assistito fosse effettivamente reale, Ema vive totalmente la realtà del presente e può eventualmente riprendersi ciò che è stato suo (Polo, lo status di madre, il crearsi una famiglia) anche se non sempre sembra volerlo davvero.
All’oscuro dello spettatore resta infatti lo scopo della maggioranza delle apparentemente casuali
azioni della protagonista: senza svelare troppo posso dire che però arriverà, probabilmente tardi
ma lo farà E qui sta il, se così vogliamo chiamarlo, problema: l’opera, nonostante un impianto
cinematografico costantemente eccezionale (particolarmente notevole ad esempio il girato delle
esibizioni di danza, seppur prolisse, e le musiche Nicolás Jaar), vive eccessivamente del suo
finale: straordinario, imprevedibile e ironico ma estremamente necessario per poter apprezzare
davvero tutto ciò che si è guardato in precedenza. Ema è probabilmente un film che necessiterà di
essere rivisto per essere apprezzato, per quanto riguarda la prima visione invece vi consiglio di
non farvi troppe domande e aspettare: per me ne è valsa la pena.