Roma 2019: Antigone – La recensione del candidato canadese agli Oscar 2020

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Di Massimo Vozza

Reinterpretare o trasporre i classici greci non è una novità nella storia dell’arte in generale, e il cinema non è stato da meno. Il rischio corso però è stato, di volta in volta, quello o di snaturare eccessivamente la vicenda originale oppure di restarle eccessivamente attaccati rischiando di perdere di vista il contesto contemporaneo al quale la nuova versione è rivolta (da un punto di vista sia estetico che narrativo). Ci sono però a volte delle eccezioni, capaci di trovare la giusta chiave, verrebbe da dire un compromesso, ed emergere raggiungendo e toccando emozionalmente il pubblico. Il pregio di Antigone (pronunciato alla francese) è proprio questo.

L’arena nella quale la regista e sceneggiatrice (nonché direttrice della fotografia) Sophie Deraspe  ambienta la storia è quella del Canada di oggi e al centro decide di porre una famiglia di immigrati composti dalla nonna capofamiglia e i suoi quattro nipoti, due ragazzi e due ragazze, tra le quali  la protagonista Antigone. Nonostante gli anni passati nel paese che li ha accolti, il film fa emergere la loro condizione di sentirsi stranieri a casa propria nel momento in cui l’apparentemente idilliaco status quo cambia. Inizia così la lotta della giovane eroina (perché tale resta anche qui) che, come da tradizione, vede da una parte le leggi dell’uomo, l’autorità, e dall’altra le leggi del cuore, le relazioni umane che intercorrono internamente allo stesso nucleo familiare che vanno addirittura al di là del giusto e sbagliato, della morale. La forza di Antigone, dentro e fuori dallo schermo, trascina con sé la massa giovane, ribelle ma pacifica (perché sì, ci si può ribellare senza ricorre alla violenza), contro le ingiustizie, trasformandola in un’icona dei nostri tempi come di quelli andati. La tragedia di Sofocle resta la chiave di lettura, condiziona i nomi di alcuni personaggi e le specifiche caratteristiche (nonché un easter egg dell’Edipo re, altra opera di Sofocle e padre di Antigone), ma la storia è talmente attaccata alla realtà quotidiana che sembra effettivamente svolgersi al di fuori dello schermo, dall’inizio alla fine (in verità esiste un fatto di cronaca che ha ispirato la Deraspe, ossia la morte di Fredy Villanueva nel 2008 e la seguente intervista della cineasta con la sorella).
A dare voce ma soprattutto volto alla protagonista è Nahéma Ricci che dopo questa prova è decisamente definibile come una promessa della recitazione; con i suoi grandi occhi, risaltati dal corto taglio di capelli conseguente al suo primo atto di ribellione, riempie lo schermo e fa trapelare un conflitto enorme, troppo per chiunque ma in particolare modo per una liceale, anche prima di inevitabilmente esplodere nell’ultima parte. L’attenzione della macchina da presa per l’attrice, che ci azzardiamo a paragonare a quella per Giovanna d’Arco nel famoso film di Dreyer (anch’essa eroina vittima di un processo ingiusto), giustifica le sbavature che si potrebbero trovare qua e là nella messa in scena (ad esempio quando viene mostrato il ruolo dei social network nella vicenda oppure alcuni momenti poetici spudoratamente costruiti).
L’opera, scelta per rappresentare il Canada agli Oscar del 2020 e presentata al Toronto International Film Festival dove ha vinto il premio per il miglior film canadese, è insomma una scommessa vinta che il mondo, soprattutto occidentale, dovrebbe conoscere anche per riscoprire la voglia di opporsi per cambiare in meglio il mondo. Una voglia che forse già comincia a intravedersi in alcune piazze.
VOTO: 8/10


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