Capone – La recensione del gangster movie di Josh Trank con Tom Hardy

Di Simone Fabriziani

Spietato uomo d’affari e contrabbandiere che ha governato Chicago con il pugno di ferro, Al “Fonzo” Capone è stato il più tristemente noto e temuto gangster della storia americana. A 47 anni, però, la demenza ha preso il controllo della sua mente e i ricordi strazianti delle sue origini violente e brutali si mischiano con il suo presente. Questa è la premessa del biopic folle e sgangherato Capone, scritto, diretto e montato dal regista statunitense Josh Trank (Chronicle, I Fantastici 4).

Un progetto che, al momento dell’annuncio più di tre anni fa, trasudava passione per il materiale da affrontare, una passione che Trank però aveva ucciso in nome dell’etichetta e della vendibilità del prodotto: originariamente intitolato Fonzo, il film ha avuto una produzione e successivamente una post-produzione travagliata che ne ha posticipato l’uscita per la stampa ed il pubblico. Adesso, con le sale cinematografiche di tutto il mondo temporaneamente chiuse e le mille possibilità dello streaming legale e dei sevizi on demand, il Capone di Trank ha debuttato in Usa, con una limited release online valida solo dal 12 al 13 maggio.
A fare però i conti con i servizi online di distribuzione ci ha pensato anche il regista, che dopo una lunghissima battaglia post-produttiva, ha rilasciato il gangster movie con un nuovo titolo e la director’s cut con il montaggio voluto dall’autore. A gigioneggiare su poster, immagini ufficiali e scene online il tracotante Tom Hardy nei panni di un indebolito e malato Al Capone, grossolanamente truccato nel suo ultimo anno di vita come fosse un contemporaneo mostro di Frankenstein. Perché in fondo, nonostante il tono sgangherato e onirico, il Capone di Trank si configura proprio come un racconto dell’orrore a tutti gli effetti.

A cavallo tra sogni (o incubi) ad occhi aperti, deliri causati dalle conseguenze devastanti della sifilide di cui soffriva negli ultimi anni della vita il celebre e sanguinario boss della malavita italo-americano, Capone è uno sguardo alternativo e non privo di suggestioni sulla fase del fall (la caduta) del gangster del cinema americano anziché far iniziare il racconto dal rise, l’ascesa. Qui non c’è redenzione, successo, trionfo, no; il film è tutto impregnato di colori e immagini mortifere, stantie, da incubi lucidi o notturni che riemergono con prepotenza dalla mente e dal passato sanguinoso di Al Capone, ora completamente vittima della sua stessa diagnosi e in balia dei profittatori (fuori e dentro casa) che vorrebbero approfittare del suo lento declino per accaparrarsi informazioni sensibili su una fantomatica somma di denaro nascosta in passato dallo stesso boss.
Certo, a tratti il racconto è talmente sgangherato e folle che rischia di cadere nel divertito ambito dei b-movie di genere, non infrequenti nella produzione cinematografica Usa fino agli anni ’70 almeno, il ritratto di Hardy nei panni del criminale è macchiettistico, gigione, spesso cartoonesco, eppure magnetico. Non tutto funziona in Capone, che risulta interessante solamente se alla fine lo si visiona come un ingenuo e appassionato divertissement di un regista alle prese con un ritratto inedito e completamente fuori schema di uno dei volti della malavita americana più celebrati e portati sul grande (e piccolo) schermo di sempre. Un film talmente imperfetto e fallace su più fronti che infine fa quasi più tenerezza che rabbia.

VOTO: 5/10



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