Elvis – La recensione del film di Baz Luhrmann presentato a Cannes

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Di Simone Fabriziani

Dopo nove anni da Il grande Gatsby, il regista e sceneggiatore australiano Baz Luhrmann torna dietro la macchina da presa e a Cannes per presentare al mondo uno dei suoi lungometraggi più ambiziosi: stiamo parlando di Elvis, film biografico diretto dal cineasta di Moulin Rouge e Romeo + Giulietta e che debutterà nelle sale italiane a partire da mercoledì 22 giugno.

Presentato fuori concorso all’ultimo festival di Cannes, Elvis non è il film biografico che ti aspetti; certo, la mano dietro la macchina da presa di Baz Luhrmann c’è tutta, a partire dai suoi inconfondibili marchi di fabbrica (il montaggio frenetico ed incalzante, gli innumerevoli barocchismi nella messa in scena, l’uso extra-diegetico della musica, che passa da una playlist fatta di pezzi d’epoca dell’artista Usa fino alle energiche cover contemporanee delle canzoni di Presley), eppure dietro a quella che molta parte della critica internazionale più smaliziata definisce “patina superficiale”, c’è molto di più di quello che appare in questo film-monstre della durata di quasi tre ore.

In Elvis di Baz Luhrmann si racconta l’ascesa e la caduta del più iconico artista musicale americano attraverso lo spettro ingombrante del suo manager storico, il misterioso ed arcigno Colonnello Tom Parker (la “vittima” di un pesante trucco prostetico Tom Hanks), colui che negli anni si è affibbiato più di una volta l’onore e l’onere di aver scoperto il talento incommensurabile del cantante di Tupelo; proprio attraverso le parole e la testimonianza di Parker il film prende le sue prime mosse, narrato dalla voce stentorea e allo stesso tempo minacciosa di un ormai anziano Colonnello. Questo perché Elvis non si prende la briga di raccontare semplicisticamente il rise and fall di un supereroe della musica internazionale, ma pone allo spettatore un quesito difficile da sottovalutare: quanto del successo di un artista è solo ed esclusivamente da imputare al suo talento?

Un dilemma che nel nuovo film di Baz Luhrmann sembra trovare risposta: la narrazione di Tom Parker, manager senza scrupoli con più di uno scheletro nell’armadio dal suo passato, enfatizza la centralità imprescindibile del Colonnello nella riuscita professionale e private di Presley, ma fate attenzione: il lungometraggio del cineasta australiano non sostiene di certo la tesi che l’icona Elvis è stata manifatturata ad arte per vendere e piacere alla maggior fetta di pubblico possibile, al contrario.

Il musicista americano (qui interpretato da un magnifico Austin Butler, in odore di nomination all’Oscar) viene difatti raccontato dapprima come un adolescente appassionato di fumetti di supereroi alla ricerca del suo stesso potere interiore: lo troverà rimanendo ammaliato dalle voci black che provengono dalle messe gospel della sua parrocchia, un dono divino che lo porterà a diventare nel tempo il precursore assoluto del rock’n’roll americano. Un talento unico e cristallino che Elvis ha saputo usare con saggezza ed inedita energia con il suo pubblico negli anni sempre più crescente. Non è difatti peregrina l’idea che la prima stretta di mano con Tom Parker possa essere analizzata, in forma puramente narratologica, come l’incontro di un supereroe con la sua maggiore nemesi, l’altra faccia oscura della stessa medaglia.

Una molteplice chiave di lettura, quella per leggere l’Elvis di Baz Luhrmann, che lo eleva di certo più in alto rispetto ai suoi “cugini” biopic più recenti.

Elvis debutta nelle sale italiane con Warner Bros. a partire da mercoledì 22 giugno

VOTO: ★★★


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