Di Giuseppe Fadda
Oggi compie gli anni Marion Cotillard: meravigliosamente
espressiva, straordinariamente versatile, la Cotillard è una delle più grandi attrici non solo del cinema
francese ma dell’intero panorama cinematografico contemporaneo. Non solo per il
suo indiscutibile talento, ma anche per il suo coraggio e la sua integrità
artistica che l’ha portata a lavorare con registi di altissimo livello, i quali
tra loro non potrebbero essere più diversi.
Ha collaborato con Woody Allen, Christopher Nolan, Xavier
Dolan, Tim Burton, Robert Zemeckis e i fratelli Dardenne e, pur avendo
lavorato più volte nell’ambiente del cinema americano, non ha mai rinunciato al
suo stile fortemente europeo improntato al naturalismo. Le sue performance sono
misurate e sottili, che non scadono mai negli eccessi, e quando i ruoli
richiedono un approccio sopra le righe l’attrice è in grado di esibire una teatralità
che non sfocia mai nella parodia o nell’esagerazione. E’ un’attrice che si
mette in gioco, che sperimenta, che espande continuamente i limiti del proprio
talento e che non si è mai ritagliata una comfort
zone. In onore del suo compleanno, ricordiamo i più grandi ruoli di questa
indimenticabile interprete.
Marion Cotillard in “Allied – Un’ombra nascosta”.
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10. Marianne Baséjour in Allied – Un’ombra nascosta (2016),
regia di Robert Zemeckis
sostenuto da un forte senso estetico e da un’atmosfera suggestiva ma
penalizzato da una narrazione farraginosa e da un’interpretazione blanda da
parte di Brad Pitt. La Cotillard interpreta Marianne,
un’agente della Resistenza Francese, con cui il protagonista Max, comandante
dell’aviazione franco-canadese, intraprende una tormentata storia d’amore. La love story al centro della storia non
assume mai il carattere iconico e leggendario di quella di Casablanca, film che Zemeckis
tenta di emulare, a causa della performance poco convincente di Pitt, eppure la Cotillard riesce a uscirne vincente con un’interpretazione
affascinante e complessa che riesce a trasmettere tutte le contraddizioni di
Marianne. La Cotillard è
un’eccellente femme fatale,
seducente, misteriosa ed enigmatica, ma non riduce mai il suo personaggio ad un
oggetto di desiderio: anzi, la sua Marianne è una donna di grande coraggio,
acume e prontezza d’azione che non ha bisogno né di aiuto né di protezione.
Nella seconda metà del film, in cui gli scheletri nell’armadio di Marianne
vengono rivelati e la sua storia d’amore con Max viene compromessa, la Cotillard offre il ritratto straziante
di una donna divorata dal dolore e dal senso di colpa. Anche quando il film
vacilla, l’interpretazione della Cotillard
non perde mai il potere ipnotico che ha sullo spettatore: se alla fine Allied – Un’ombra nascosta emerge come
un film discreto e non un fallimento, è grazie a lei.
struttura volutamente complicata, risultando in un’opera tanto coinvolgente
quanto intellettualmente stimolante. Il cast è uniformemente credibile, ma
l’interpretazione più memorabile è quella della Cotillard, che interpreta Mal, la moglie morta suicida del protagonista
Dom (Leonardo Di Caprio). Mal
compare solo in flashback oppure come angoscianti proiezioni del subconscio di
Dom: quella della Cotillard è una
performance volutamente frammentaria, perché Mal non è tanto un personaggio
quanto una presenza che può essere alternativamente inquietante, malinconica,
aggressiva e devastante. Lo spettatore non conosce mai Mal, conosce solo la
percezione che Dom ha di lei: l’interpretazione della Cotillard è un insieme di piccoli spiragli della psiche della donna
che nel complesso formano un ritratto psicologicamente ambiguo ma al tempo
stesso emotivamente potente.
che include attori come Daniel Day-Lewis,
Nicole Kidman, Penelope Cruz, Sophia Loren
e Judi Dench, Nine è un musical profondamente problematico che non riesce a
catturare l’essenza del film a cui ispira, 8
½ di Federico Fellini.
Probabilmente era un’opera già fallita in partenza, perché tentare di
rielaborare un regista così unico e personale come Fellini è un’impresa pressoché impossibile. Ad ogni modo, Nine risulta un film prevalentemente
vuoto il cui unico elemento veramente memorabile è Marion Cotillard, la cui interpretazioni regge il confronto con
quella di Anouk Aimée del film
originale. Nel ruolo della moglie costantemente tradita e umiliata, la Cotillard riesce a trasmettere gli anni
di risentimento che si celano dietro la sua maschera pacata, dignitosa e
indecifrabile. Nei suoi due numeri musicali, “My Husband Makes Movies” e la
candidata all’Oscar “Take It All”, l’attrice non solo dimostra notevoli doti
canore ma soprattutto raggiunge un’intensità devastante, facendoci penetrare
nella dimensione privata e intima di una donna stanca di vivere nell’ombra.
Marion Cotillard in “Macbeth”.
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7. Lady Macbeth in Macbeth (2015), regia di Justin
Kurzel
di una narrazione eccessivamente lenta ma riesce ad essere un prodotto
memorabile grazie alla regia personale e innovativa di Kurzel, una magnifica fotografia che gioca sui toni del rosso
sangue e le sensazionali interpretazioni dei due protagonisti, Michael Fassbender e la Cotillard. L’interpretazione
dell’attrice offre una prospettiva interamente nuova sul personaggio che non è
più ritratto come una manipolatrice machiavellica ma come una donna ambiziosa
tormentata dal suo senso di colpa, dalla solitudine (la Cotillard, con il suo accento francese, rende la regina una
straniera nella sua stessa corte) e dalla perdita di un figlio (un’aggiunta
rispetto all’opera shakespeariana che aggiunge ulteriore complessità ai due
protagonisti). L’attrice ha inizialmente una presenza scenica imponente che
diventa sempre più pallida man mano che Lady Macbeth precipita nel baratro
della follia. Il grande monologo di Lady Macbeth è spesso interpretato come
un’esplosione di follia; la Cotillard invece
lo esegue in maniera fortemente minimalista, quasi come il flebile sussurro di
una donna ormai ridotta al pallido spettro della persona che era una volta.
regia di Michael Mann
premesse, ma è comunque un solido gangster movie, con una buona regia e delle
interpretazioni uniformemente convincenti. L’aspetto più memorabile è
l’interpretazione di Marion Cotillard,
supportata da una sceneggiatura che fornisce al personaggio una
caratterizzazione complessa senza relegarla al cliché della gun moll. La Cotillard porta al personaggio carisma
e delicatezza, e la relazione tra Billie e John Dillinger (Johnny Depp) risulta toccante e coinvolgente grazie all’intesa che
i due attori hanno sullo schermo. È lei che domina la parte finale del film,
grazie all’intensa visceralità con cui ritrae la scena del brutale
interrogatorio di Billie da parte della polizia. E il suo primo piano che
chiude il film, con un amaro sorriso sulle labbra e le lacrime agli occhi, è
quasi poetico.
regia di Jean-Pierre Jeunet
racconta la storia di una donna (una bravissima Audrey Tatou) alla ricerca del suo fidanzato disperso dopo la Prima
Guerra Mondiale. Marion Cotillard
interpreta Tina, una prostituta che decide di vendicare il suo fidanzato,
condannato a morte perché disertore. È un personaggio che compare in poche
scene, ma la Cotillard è
semplicemente sensazionale in ogni scena incarnando alla perfezione la furia
vendicativa che guida il suo personaggio. È un personaggio che ci inquieta e ci
disturba per la violenza con cui esegue il suo piano, ma nella sua scena finale
la Cotillard ci permette di vedere
il profondo dolore che si cela dietro alla sua apparente impassibilità e
trasforma Tina nel personaggio più straziante di tutta la storia. Per questa
interpretazione, l’attrice ha ricevuto un meritatissimo Premio César.
ritmo, Un sapore di ruggine e ossa è
un film toccante ed empatico incentrato sull’inaspettata storia d’amore tra il
rude ma buono Ali (un eccellente Matthias
Schoenaerts) e Stéphanie, un’addestratrice di orche che ha perso le gambe
in un incidente. L’interpretazione della Cotillard
è semplicemente monumentale: è di una potenza devastante nelle scene iniziali
in cui ritrae la depressione di una donna che ha perso tutto, e man mano che il
film va avanti l’attrice ritrae passo per passo la sua lenta rinascita,
trasmettendo il dolore di ogni ricaduta e la gioia di ogni piccolo momento di
speranza. E’ una performance ricca di grandi momenti: il suo amaro monologo in
cui rimpiange l’attrattiva che un tempo esercitava sugli uomini; la sua prima
notte d’amore con Ali; la scena in cui, in sedia a rotelle, ricorda i movimenti
che faceva per addestrare le orche sulle note di “Firework” e per un attimo
rivive la vita che ha perso. Ma la grandezza della sua performance non sta
nelle scene madri, sta nella sua capacità di trasformarsi completamente in
un’altra persona e di condividere con lo spettatore ogni momento del suo
viaggio alla riscoperta delle bellezze della vita.
Marion Cotillard in “La vie en rose”.
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3. Edith Piaf in La vie en rose (2007), regia di Oliver Dahan
dell’interpretazione di Marion Cotillard
è semplicemente innegabile. L’attrice è straordinariamente credibile nel
ritrarre ogni fase della vita della cantante: l’ingenua esordiente, la grande
ma problematica cantante e la leggenda morente e dimenticata. Non sfocia mai né
nel patetismo né nella condanna, ritrae la donna in tutti i suoi pregi e i suoi
difetti, in tutta la sua imperfetta umanità e in momenti chiave (come la morte
del suo amante Marcel) raggiunge devastanti picchi di intensità. La sua
trasformazione fisica nel ritrarre la diva ormai completamente devastata
dall’alcol e dalla morfina è indescrivibile, perché il confine tra attrice e
ruolo si perde completamente. Marion
Cotillard non imita Edith Piaf, la incarna completamente e cattura la sua
anima sullo schermo d’argento. Inoltre, nelle scene musicali, l’attrice ha
un’imponente presenza scenica ed esegue forse il lip-synching più credibile
della storia del cinema. Per questa performance, la Cotillard è diventata la prima persona a vincere l’Oscar per un
film in lingua francese.
regia di James Gray
profondamente toccante melodramma che narra la storia di Ewa, un’immigrata
polacca che arriva in America nei primi anni Venti e diventa una prostituta per
poter pagare la cauzione per sua sorella, confinata in quarantena a Ellis
Island. La preparazione tecnica dell’attrice, che ha imparato a parlare polacco
per interpretare il ruolo, è sempre notevole, ma a lasciare il segno è la calma
espressività del suo viso, degno di un’attrice del cinema muto, in cui è
nascosta tutta la tragedia della donna. La Cotillard
è straziante perché non sceglie di interpretare Ewa come una vittima impotente
ma come un’eroina tragica che malgrado tutte le sventure non perde la sua
resilienza e determinazione. Il piano sequenza in cui Ewa si confessa ad un
prete, cercando un conforto e un perdono che non arriveranno, dovrebbe essere
studiato nelle scuole di recitazione.
Marion Cotillard in “Due giorni, una notte”.
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1. Sandra Bya in Due giorni, una notte (2014), regia dei
fratelli Dardenne
personaggio di Sandra, un’operaia con problemi di depressione. Il suo capo
propone ai suoi colleghi un bonus di 1000 euro in cambio del licenziamento
della donna e la votazione verte per il bonus. Un’amica di Sandra riesce a far
rimandare il referendum alla settimana successiva, e nei due giorni del
finesettimana Sandra decide di visitare uno ad uno i suoi colleghi per
convincerli a votare per lei. È un film che, data la premessa, avrebbe potuto
essere ripetitivo, e invece non lo è perché a ogni personaggio è garantita una
complessità straordinaria: è un film fortemente umano e lo è soprattutto grazie
alla Cotillard che scompare nel
personaggio per regalare una delle interpretazioni più belle della storia del
cinema. Ed è bella perché è vera, perché Sandra potrebbe essere una nostra
amica, una nostra parente, una nostra collega, perché Sandra potrebbe essere
noi. L’attrice esplora fino a fondo le fragilità e la mancanza di autostima di
questa donna ma anche la sua forza interiore che la porta a non demordere
malgrado i costanti rifiuti, gli abusi verbali e persino fisici. E man mano che
Sandra trova il coraggio di battersi per sé stessa, ci ispira e commuove a tal
punto che vorremmo alzarci in piedi e applaudire: il finale è amaramente
realistico ma è anche pieno di speranza, perché nel non aver rinunciato alla
sua umanità e nell’aver trovato la sua voce e la forza di ricominciare, Sandra
ha vinto.