CineTravel: 10 grandi pellicole per scoprire il cinema australiano

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Di Edoardo Intonti, Gabriele La Spina

Potrebbe non essere fuori luogo dire “australians do it better”, perché esplorando approfonditamente la produzione australiana degli ultimi decenni salta subito all’occhio la grande audacia e duttilità dei talenti della terra di Oz. George Miller, Baz Luhrmann e Jane Campion sono soltanto alcuni dei miti sfornati in passato cui subentrano nuove leve come Jennifer Kent e David Michôd.

Nel nostro primo articolo di una rubrica di “viaggi” cinematografici, esploriamo uno dei paesi più misteriosi e coraggiosi del globo. La tradizione e il legame con la terra sono delle componenti quasi sempre presenti nel cinema australiano, che da sempre si è dimostrato, non abbiamo timore nel dirlo, quasi avanguardista e più di ogni altro capace di stupire e coinvolgere lo spettatore.

Geoffrey Rush in “Shine”

Le scelte di Edoardo

Un grido nella notte (1988)
Il regista Fred Schepisi, autore già de Sei gradi di separazione e La Casa Russia, ha dimostrato di essere un confezionatore di storie di tutte le tipologie, siano essi trasposizioni di opere teatrali, spy story o un dramma familiare, come in questo caso. Si tratta della delicata storia di una madre accusata dell’omicidio della sua neonata bambina, che al tempo fece gran clamore in tutta l’Australia agli inizi degli anni ’80. Al di là della semplice trama e dei suoi risvolti, di cui Schepisi non può prendersi il merito, la pellicola rappresenta bene il peso dell’opinione pubblica locale, per via della quale la donna venne condannata. Meryl Streep risulta forse sotto tono: freddo e imperscrutabile per la maggior parte del tempo, questo non a causa di una mancanza della Streep, ma per per via dell’atteggiamento della controparte reale.
Le nozze di Muriel (1994)
Incredibilmente camp e amabile, come solo le commedie degli anni ’90 sapevano esserlo, questa pellicola, la cui trama ruota attorno alla figura della sempre-inetta Muriel e al suo desiderio quasi infantile di sposarsi e trovare l’amore. Come per il connazionale Priscilla, il film è considerato un cult immancabile della cinematografia australiana recente (nonché testimonianza del grande amore dell’Australia per la musica degli Abba), e come tale è stato punto di riferimento fondamentale per le generazioni cresciute in quegli anni, che hanno visto nella figura sgraziata di una cicciotella Tony Colette agli albori (e che grazie a questa pellicola inizierà a lavorare anche negli USA), una fonte di ispirazione per tutti quei buoni sentimenti che ancora oggi sentiamo il bisogno di veder rappresentati (la crisi adolescenziale, il riscatto personale, l’amicizia, l’amore). Film “leggero” che non mette mai davvero in ridicolo la protagonista, ma che lascia lo spettatore con una risata vagamente amara e malinconica in bocca. Non ci si aspetta niente di meno dall’autore del  classico Il Matrimonio del mio miglior amico.

Shine (1996)
Un raro biopic su una delle personalità australiane più interessanti del secolo, ovvero il compositore David Helfgott, ancora vivente, e la sua lotta costante con la schizofrenia. Una performance, quella di Goffrey Rush, premiata giustamente con l’oro, e che ancora oggi segna un punto fondamentale nella rappresentazione di una malattia mentale. Scott Hicks, regista della pellicola, riesce a bilanciare con maestria narrazione drammatica e tessuto musicale, che, come si dovrebbe all’interno di una biografia di un musicista di una tale levatura, è fondamentale. Pochi registi odierni sembrano aver colto questa sottigliezza quando si parla di biopic su musicisti, tendendo a dare troppo spazio ad un ambito piuttosto che all’altro.
Jacki Weaver in “Animal Kingdom”
Animal Kingdom (2010)
Riproposto recentemente in una serie televisiva statunitense un po’ infelice, questo film vide l’acclamazione pubblica del regista David Michôd, allora giovane talento, e della sua pellicola su una famiglia criminale di Melburne, città rappresentata con vibrazioni vagamente californiane, capeggiata dalla stratosferica Jacki Weaver nel suo ruolo più interessante. Scritto e diretto magistralmente, Animal Kingdom riesce nell’impresa di creare una “mitologia” criminale slegata dal modello italo o afro-americano, cui Hollywood ci aveva abituato in questi anni, presentandoci uno scenario ricco di manipolazione e giochi di potere che non si vedeva dai tempi de Il Padrino .
Snowtown (2011)
Pellicola d’esordio di Justin Kurzel (autore dell’ultima reinterpretazione del Macbeth), rappresenta un chiaro esempio dell’irrequietezza dei cineasti australiani, interessati a superare i limiti imposti dai loro predecessori (sopratutto dai loro cugini americani) e a raccontare storie quantomeno controverse, senza aver paura di spingersi e sperimentare.Vagamente garroniano, nella sua scelta di non integrare attori celebri e/o professionisti, questo film, definito da alcuni critici ai limiti di uno snuff movie riesce perfettamente nell’intento che Kurzel si era imposto: disturbare e inquietare lo spettatore, nel raccontargli le stragi davvero avvenute nei sobborghi più poveri della città di Adelaide. Nonostante i progetti successivi del regista possono essere definiti “discutibili”, non quanto per la tematica, quanto per la regia, in seguito più raffinata e artificiosa (Assassin Creed), notiamo come questa pellicola sia spoglia di qualsiasi orpello registico, cruda, come le tematiche mostrate sullo schermo, disturbanti eppure reali nella loro miserabile dimensione suburbana.



Una scena da “Picninc a Hanging Rock”

Le scelte di Gabriele


Picnic a Hanging Rock (1975)

Capolavoro surrealista e trasognante di Peter Weir, si sviluppa dal giorno del primo San Valentino di questo secolo. Un gruppo di ragazze dell’aristocratico collegio di Appleyard viene portato in gita sulla montagna chiamata Hanging Rock. Alcune di loro scompariranno senza spiegazioni. Pellicola che ha consacrato la fama di Weir, è un elegantissimo miscuglio di thriller e mystery, che riesce a mantenere un’aura di profonda tensione nello spettatore mescolando continuamente realtà e sogno. Si tratta di una sorta di critica dell’autore che si interroga sul legame tra civiltà e natura, su come l’una possa vincere sull’altra in un continuo ruotarsi di parti. Una magnifica colonna sonora incornicia un racconto definibile poetico per certi versi, dove le donne sono le assolute protagoniste, e lo spettatore subisce l’inganno e il tradimento di Weir. 

Mad Max Saga (1979-2015)

Molti conosceranno il grandissimo capolavoro action Mad Max: Fury Road, una delle sorprese di questi ultimi anni, in pochi conosceranno però la trilogia che lo ha preceduto che rappresenta senza dubbio uno dei capisaldi della filmografia australiana. Prima di Tom Hardy era infatti Mel Gibson a interpretare il ruolo di Max, in una saga che a partire dal 1975 ha raccontato la disfatta di un’umanità, tanto folle quanto credibile. La desertificazione di Fury Road è infatti meno presente nel primo capitolo di George Miller, la cui ambientazione si svolge molto più nella strada, ma le tipiche corse, al limite del coreografato sono sempre state un elemento tipico poi maggiormente affermato nel secondo capitolo del 1981, dai toni maggiormente creepy e stranianti, dove l’umanità inizia sempre più a cedere verso il suo degrado completo. Nel terzo capitolo del 1985, dopo aver perso ormai i suoi cari, Max si ritrova invece a dover sopravvivere in una mini società, ormai alle prese con la crisi del carburante. I personaggi sui generis del terzo capitolo sono tra i più belli della saga che ben trent’anni dopo sarebbe tornata a conquistare il pubblico con un perfetto capitolo, pronto ad aprire una nuova serie. Hardy è un perfetto erede di Gibson, ma diversi membri del cast originale tornano invecchiati in questo paesaggio di totale devastazione, tra follia e delirio. 

Priscilla – La regina del deserto (1994)

Probabilmente il film scritto e diretto da Stephan Elliott non brilla per la sua altissima qualità ma è diventato con gli anni un rinomato cult nonché incredibile fenomeno LGBT. Ancora una volta il deserto è il filo conduttore di questa storia, dove un gruppo di drag queen intraprende un delirante viaggio in pullman. Al limite del surreale, assistiamo non solo alle deliziose performance di  Hugo Weaving, Guy Pearce e Terence Stamp, in delle vesti assolutamente insolite, ma a una pellicola ovviamente sull’accettazione ma che respira gli ideali di libertà quasi sfrenata del cinema australiano. Indimenticabile ed eccessiva la scena in cui uno dei protagonisti sopra al tetto del pullman in movimento lascia svolazzare il suo chilometrico mantello argentato. Uno stile poi emulato in diverse altre occasioni, non sempre con lo stesso convincente risultato, basti pensare al ben più ingenuo A Wong Foo, grazie di tutto! Julie Newmar arrivato nelle sale l’anno successivo. 
Essie Davis in “Babadook”

Badabook (2014)

Probabilmente si tratta della pellicola in cui si respira in minor misura “l’aria australiana” eppure Babadook resta l’emblema della capacità dei registi australiani di saper sovvertire le regole, e allo stesso tempo la prova dei grandi nuovi talenti che questa terra continua a regalarci. Dobbiamo infatti ringraziare l’Australia per aver fatto si che Jennifer Kent ristabilisse in qualche modo lo status del cinema horror, contribuendo con il suo ormai cult ad affermare l’horror d’autore moderno. Nella pellicola dove seguiamo l’angusta vita di una madre depressa alle prese con un figlio iperattivo e un libro pop-up che porta nella sua casa un’oscura entità, assistiamo a un ritratto profondamente psicologico. Con un pizzico del cinema di Lynch, viviamo la realtà immaginaria di un essere umano alle prese con i propri demoni interiori, trovatosi a un bivio inaspettato. La Kent attinge alla sua cultura horror prendendo in prestito elementi dai classici come Nightmare e ispirandosi all’espressionismo tedesco per la realizzazione della sua creatura. Una vera e propria purista del genere, che asciuga il suo lavoro dagli effetti speciali, eliminando i tipici jump scare induce lo spettatore ad avere paura senza ostentazioni.

Strangerland (2015)

Sottovalutato debutto alla regia di Kim Farrant, anche in questa pellicola troviamo gli elementi chiave della filmografia australiana: il deserto, gli aborigeni e le loro tradizioni. Travestita da semplice thriller drammatico sulla sparizione di una giovane adolescente problematica, soffocata dalla sua famiglia, Strangerland è in realtà un intelligente percorso di scoperta dell’identità femminile, vissuta da due diverse generazioni: quella della madre, una donna sessualmente repressa con un oscuro passato, che vede la sua giovinezza sfumare via in una vita di non realizzazione personale, e quella della figlia, alla scoperta della propria sessualità, allo stesso tempo un uccello in gabbia volenteroso di fuggire dalla propria famiglia opprimente. Una tempesta di sabbia è solo uno spunto per scatenare gli sfoghi più reconditi della loro psiche, se la figlia finisce per perdersi letteralmente nel deserto australiano, la madre viene spinta sull’orlo della pazzia dal bigottismo della propria comunità, fino ad esplodere in un freak-out dopo essere stata preda di visioni notturne. Un film che deve la sua riuscita soprattutto alla stupefacente performance di Nicole Kidman.

Altri titoli: Wolf Creek (2005), Gli anni spezzati (1981), Lantana (2001), Skinheads (1992), The Dish (2000), Ore 10: Calma Piatta (1989), Lion (2016).


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