Di Redazione
Che anno il 2017! Volge al termine una delle annate più intense degli ultimi tempi per il settore cinematografico, mai tanto prolifico, e al contempo tra burrasche, ma anche trionfi. È stato l’anno delle donne, supereroine sullo schermo e fuori, capaci di far sentire la loro voce liberandosi del fardello degli abusi. L’anno del cinema indie, dove le piccole case di produzione sembrano prevalere sempre di più per qualità e capacità di rischiare. Quello dei performer, in un’edizione mai tanto sovraccaricata come quella dei prossimi Oscar.
Fare ordine e selezionare il meglio di un anno tanto ricco di eventi, storie e sguardi inediti, è un compito assai arduo, a cui gli autori di Awards Today hanno prontamente risposto, guidati dal gusto personale ma anche dalla voglia del nuovo, di nuove voci artistiche e modus operandi mai approcciati in precedenza. Perché oggi anche nel cinema ciò che va premiato è l’innovazione, ma soprattutto l’audacia di sfidare canoni radicati nell’immaginario collettivo, sperimentare anche attraverso la settima arte, tramite la camera e ciak. Il messaggio è la nuova magia dello schermo, ed è un bene che si tratti di un messaggio mai sentito prima d’ora, o meglio mai in questo modo.
Tra guerre, collegi femminili, fantasmi vintage e mostri marini, abbiamo scelto le 20 storie che più ci hanno colpito, i personaggi e i registi, meritevoli d’encomio; alcuni poiché nuove promesse e futuri maestri del cinema contemporaneo, altri invece fenomeni artistici che hanno ritagliato la propria nicchia nell’universo dei racconti visivi, senza passare inosservati.
Barry Keoghan in una scena di “The Killing of a Sacred Deer”. |
Di Gabriele La Spina
Personal Shopper
Tra le pellicole più folgoranti del regista e sceneggiatore Olivier Assayas, Personal Shopper non è altro che la smodata ricerca di spiritualità tra il caos della vita moderna. Con protagonista Kristen Stewart nei panni di Maureen, una giovane americana che a Parigi si mantiene lavorando come personal shopper della celebrità Kyra. Maureen ha la capacità psichica di comunicare con gli spiriti dei morti, come quello del fratello gemello Lewis, da poco defunto. Ben presto, comincia a ricevere messaggi ambigui provenienti da una fonte sconosciuta. Mentre la Stewart offre il più alto piccolo della sua ancora acerba carriera, con forte interiorizzazione e capacità di comunicare il consumante struggimento di Maureen, Assayas orchestra il racconto con maestria, da una visione squisitamente vintage del soprannaturale, a delle intuizioni puramente geniali: la sequenza che colpisce di più è infatti quella in cui la protagonista riceve numerosi messaggi nel suo cellulare, dopo averlo messo in modalità aereo, che preannunciano l’avvento di un misterioso individuo, entità o semplice voyeur. In Personal Shopper nulla è lasciato al caso, e con eleganza, e una forte capacità evocativa, ogni elemento si muove fin dallo sfondo della scena, necessitando di ulteriori visioni per cogliere ogni sua sfumatura.
L’inganno
La qualità innata di Sofia Coppola è quella di saper trasportare lo spettatore, ma al contempo anche i propri attori, in una sua dimensione ben definita, ciò che vediamo è il mondo di Sofia Coppola e di nessun altro. Lo stesso accade nella sua ultima pellicola, dove vige la quasi totale assenza di suono, se non i flebili cinguettii degli uccelli e i costanti rimbombi dei cannoni, che inducono una palpabile ansia, fa da sfondo infatti la Guerra Civile, e nel Sud un gruppo di studentesse vivono isolate dalla realtà, sotto la guida dell’integerrima Miss Martha. Quando un soldato unionista approda moribondo alla loro porta, ogni equilibrio dovrà ribaltarsi. Irriducibile a una semplice battaglia dei sessi, L’inganno tratta con eleganza i temi della repressione, dell’isolamento e della solitudine; dipingendo ritratti femminili ben approfonditi. La Coppola, alla direzione di quello che è paradossalmente il suo film più europeo, sembra quasi fare uso di sola luce naturale, del sole e di candele, e tutto rimane soffuso, sussurrato, tranne le nevrotiche dame in abito lungo, che si spostano tra le stanze della casa come in una coreografia. Sostenuti da una sceneggiatura priva di sbavature, ironica e oculata nella caratterizzazione, il cast formato da Nicole Kidman, Kristen Dunst, Colin Farrell ed Elle Fanning, genera uno scontro tra titanici talenti.
Lady Macbeth
Nel dramma, esordio registico di William Oldroyd, vediamo come protagonista Katherine, una donna che nell’Inghilterra rurale del 1865, si sente soffocare da un matrimonio senza amore con un uomo del doppio della sua età e dalla sua fredda famiglia. Quando comincia una relazione passionale con un giovane operaio che lavora nella tenuta del marito, una forza inedita e potente si scatena dentro di lei, non facendola fermare di fronte a nulla pur di ottenere ciò che vuole. Elaborato dalla sceneggiatrice Alice Birch, dal racconto “Lady Macbeth del distretto di Mcensk” di Leskov, Lady Macbeth si veste come un thriller hitchcockiano, cupo, gothic, altero e crudele, ma nasconde in realtà una forte visuale femminile, denunciando infatti la subordinazione nella società inglese ottocentesca. La performance di Florence Pugh, dominata dalla passione inespressa della protagonista per poi lasciarsi andare ai gesti più indicibili, è una delle rivelazioni dell’anno. Spietata, ma convinta di essere senza colpe, alla ricerca della più umili delle libertà.
Good Time
Come due fulmini a ciel sereno, i fratelli Safdie sono la rivelazione registica del panorama indie di quest’anno, dopo tanto clamore al Festival di Cannes, Good Time è la pellicola di puro dinamismo e fluida creatività che stavamo attendendo per uno scossone ad anni del cinema forse fin troppo adagiati. Un sorprendente Robert Pattinson, è protagonista di una sfrenata corsa contro il tempo, rapinatore di professione vede il fratello, affetto da un ritardo mentale, incarcerato a causa sua dopo un colpo andato a male. Motivato dalla volontà di liberare il fratello, trovando la sua redenzione, ma in particolar modo mirato al raggiungimento di una libertà più comune tanto agognata, si ritrova a che fare con i personaggi più sui generis di una New York suburbana, sconosciuta, quella dei ratti di fogna, degli invisibili, e lui, sfuggente quanto camaleontico, maestro della mimetizzazione per sopravvivenza, è un guizzo di pura elettricità, ma destinato a estinguersi. Fosforescenze, abbaglianti luci al neon, incorniciate da una colonna sonora elettro-pop, sono gli elementi di una regia brillante, ma il dinamismo di Good Time nasconde al contempo un retrogusto amaro, malinconico e forse pessimistico; i reietti dei fratelli Safdie vivono di illusione, sono i dimenticati della società, coloro di cui noi stessi ignoravamo l’esistenza, e il nostro prezzo da pagare è il pugno nello stomaco di uno dei finali più struggenti visti negli ultimi anni sul grande schermo.
The Killing of a Sacred Deer
Dogtooth e The Lobster sono state due delle pellicole più sovversive degli ultimi anni, e con la sua ultima, non definibile da meno, opera cinematografica, Lanthimos ripete il successo. Niente personaggi borderline e distopie, il fulcro di The Killing of a Sacred Deer è una cinica riflessione sul valore della vita stessa, scaturito da una maledizione, letale sia nell’idea sia nel suo esito. Il chirurgo Steven subisce il fascino e il fantomatico sortilegio, di Martin, non altro che il figlio di un paziente perso a causa della sua negligenza; da adesso in poi la sua bellissima moglie Anna, e i due adorabili figli, rischiano la propria vita almeno che lui non sacrifichi uno dei tre. Tra vorticosi quanto lenti e anestetizzanti giri di camera e primissimi piani, Lanthimos dirige ossessivamente e meticolosamente, con una precisione geometrica nella struttura dell’immagine, viene adoperato un dosaggio della luce che passa dall’estremo bagliore, come un’aura che avvolge il personaggio di Anna, madre-madonna che corrompe sé stessa, e l’oscura ombra di ogni angolo della casa fino al trono sporco di sangue dove attende Martin in cantina. L’immancabile dark humor del regista greco è il valore aggiunto di un potente, inebriante, incantesimo visivo; dove le performance di fuori classe come Barry Keoghan, Nicole Kidman e Colin Farrell, confermano quanto la pellicola sia destinata a divenire un classico per i posteri, ad oggi una ridefinizione del genere horror, esaltato anche oltre l’autoriale.
Una scena tratta da “I, Tonya”. |
Di Simone Fabriziani
Dunkirk
A riscrivere per sempre il genere del war movie ci ha pensato quest’anno il regista britannico Christopher Nolan, da sempre additato come autore concettuale e cervellotico di tanto cinema ad alto budget dell’ultimo decennio, perlomeno. Dunkirk non fa altro che amplificare l’idea di settima arte di Nolan, che per la prima volta nella sua carriera si cimenta nel cinema di guerra raccontando l’evacuazione dalla spiaggia di Dunquerque di un vasto numero di soldati alleati. La narrazione è di quanto più anti-storico possa esserci nel genere cinematografico suddetto: tre piani temporali e tre vicende umane che si sovrappongono al suono del ticchettio del tempo (insufficiente) che vola via per un’esperienza immersiva e totalizzante che ha il sapore dei grandi racconti universali: atemporali, indimenticabili. Forse Nolan ha firmato il suo capolavoro di regia assoluto.
120 battiti al minuto
Il miglior film europeo dell’anno è un titolo che spetta di diritto all’asciutto e disperati grido di sopravvivenza scritto e diretto da Robin Campillo, vincitore tra l’altro del Gran Premio della Giuria a Cannes con 120 battiti al minuto, per l’appunto. Il racconto della militanza e delle lotte a favore della comunità LGBT di Act Up nella Francia bigotta dei primi anni ’90 è lo sfondo delle battaglie private dei suoi membri e del clima guerresco instauratosi per combattere l’epidemia dell’AIDS. Secco, senza compromessi, asciutto e dal taglio fortemente documentaristico, 120 battiti al minuto è il testamento cinematografico definitivo delle conseguenze sociali nel pubblico e nel privato dell’epidemia più devastante e bistrattata nella storia della civiltà occidentale contemporanea. Un film di guerra senza macchine e armi di distruzione di massa, ma allo stesso tempo un inno sfrenato alla gioia di vivere (e di sopravvivere).
Una donna fantastica
La conferma del cinema migliore degli ultimi anni (quello con la C maiuscola) arriva nuovamente dal Sud America, nel Cile con più precisione. La scuola del nuovo cinema cileno inaugurata dagli exploit internazionali di Pablo Larraìn ritrova in Sebastian Lelio il suo alunno migliore. Già apprezzato in tutto il mondo con il dolente “Gloria”, Lelio racconta nuovamente le contraddizioni di una nazione del sud del continente americano attraverso il concetto sfuggevole dell’identità, del pregiudizio e dell’accettazione. La commovente storia di amore e di orgoglio di Marina, cameriera transessuale con il sogno del canto operistico, si intreccia a quella della famiglia del suo defunto compagno, ricettacolo e allegoria totalizzante di una società modernizzata che fa però ancora fatica a realizzarsi tale. Un ritratto intimo dell’identità sessuale e allo stesso tempo un cinico affresco del Cile odierno dominato da una Daniela Vega in stato di grazia.
I, Tonya
A cavallo tra la musicalità di Martin Scorsese e l’ironia beffarda dei fratelli Coen, il regista australiano Craig Gillespie confeziona il biopic più bello dell’anno. La storia tragicomica della pattinatrice Tonya Harding e del suo declino dopo uno scandalo sportivo durante le Olimpiadi invernali del 1993 è anche il contraltare cinematografico per raccontare i sogni e i fallimenti delle vite inette e provinciali della società di periferia degli Stati Uniti, un “underbelly” dalle tinte grottesche ancorata dalle performance sorprendenti di Margot Robbie e di una velenosa Allison Janney, volti di un rapporto madre-figlia quasi uscito da un ritratto caricaturale di Francisco Goya. Rise and fall sportivo vibrante ed ironico come non se ne vedevano da tempo.
The Shape of Water
Il Leone d’Oro della Mostra del Cinema di Venezia di quest’anno è anche il trionfo più puro del cinema di intrattenimento votato allo sguardo cinefilo e autoriale. Punta di diamante della poetica dei mosti e del diverso del regista messicano Guillermo del Toro, The Shape of Water coniuga in maniera brillante gli stilemi più genuini del cinema fantasy, dell’amore del cineasta sudamericano verso il grande cinema horror di serie b, con gli elementi più classici del romance per il grande schermo. A mescolare il tutto ci pensa del Toro, che con The Shape of Water confeziona un’ode potentissima e visivamente indimenticabile della diversità ai tempi della Guerra Fredda, sposando in maniera miracolosa dettami e suggestioni del cinema statunitense alla sensibilità latinoamericana per il gotico e il grottesco.
Una scena di “The Florida Project” di Sean Baker. |
Di Edoardo Intonti
Madre!
Incompreso e bistrattato, l’ultimo lavoro di Darren Aronofsky è un capolavoro di scrittura simbolica, che coniuga insieme religione e ambientalismo in una pellicola certamente ostica dal punto di vista dei contenuti, dalla difficile interpretazione e assimilazione, risultando ai più un’accozzaglia di violenza, manierismo e vuota tensione. La casa, oggetto di tanta cura e dedizione da parte della protagonista (una Jennifer Lawrence davvero in parte e per una volta, veramente degna di riconoscimenti) è bistrattata dagli ospiti che il marito (Javier Barden) invita, individui fanatici e delle sue parole e della sua persona. Tra Caino e Abele ed Adamo ed Eva, la pellicola è un crescendo di distruzione e morte, in quello che se non viene colto come un mero simbolismo, risulta inevitabilmente assurdo e fuori luogo. Ma in fondo stiamo parlando del regista del Cigno Nero e Requiem for a Dream, che dopo l’esperienza con l’antico testamento di Noah, ha sentito il bisogno di mostrarci l’altra faccia della medaglia della storia: quella dal punto di vista del nostro amato e bistrattato pianeta.
Insyriated
Il regista belga Philippe Van Leeuw mette in scena un dramma claustrofobico ambientato in un appartamento borghese di una famiglia di Damasco: la città è costantemente sotto attacco, manca l’acqua, spesso la luce: attraverso il cortile che separa la famiglia dal resto del mondo sono appostati dei cecchini; lo stesso palazzo, ormai disabitato, è mira dei predoni, compaesani sciacalli anche peggiori dei bombardieri fuori casa. La volontà di ferro della capofamiglia tiene il gruppo unito contro il mondo esterno, ospitando la vicina di casa neo mamma, sopravvissuta insieme al marito e intenzionata a fuggire in Libano. Il punto di vista europeo di un ex direttore della fotografia, per raccontare il dramma di un quotidiano nemmeno tanto lontano da noi, come a rispondere alla domanda “perché vengono qui?”. La risposta è nell’attaccamento alla vita che ciascun personaggio dimostra, in particolare la bravissima Diamand Bou Abboud (al cinema quest’anno anche con The Insult), che regala una performance così struggente, che in un mondo ideale sarebbe premiato con tutti gli onori.
The Party
Premiato a Berlino con il Guild Film Prize, The Party è l’ultimo progetto dell’eterna anarchica e femminista Sally Potter, così autoironica e superiore, da riuscire a mettere in scena le sue stesse perplessità su vita, morte, amore, politica ed economia, sfruttando un ensemble d’attori di tutto rispetto tra cui Bruno Gantz, Kristin Scott Thomas, Cillian Murphy e Patricia Clarkson. La Potter racconta di un gruppo di amici chiamati insieme per festeggiare la nomina a ministro del governo ombra di una di loro, evento al quale però, verranno fuori tresche amorose mai davvero risolte e la scoperta di una malattia grave di un membro del gruppo. Normalmente dai toni più cupi, la regista, qui anche in veste di sceneggiatrice, non risparmia nessun incarnazione della vita della classe borghese inglese, sia essa quella pseudo-comunista di un professore universitario o quella spietatamente consumistica di un broker della city, passando per coppia lesbica, il santone spirituale e l’atea anarchica del gruppo (nonché avatar della regista stessa). Ogni ideologia viene smontata o messa in discussione, in una commedia brillante mirata ad invitare tutti a prendersi un po’ meno sul serio e ragionare sulla differenza che c’è tra la persona che cerchiamo di sembrare e quella che siamo realmente.
No Date, No Signature
Il bello del nuovo cinema mediorientale, in questo caso iraniano, è che, anche se legato immancabilmente ad un mondo diverso da quello europeo o americano al quale possiamo essere abituati, riesce a raccontare storie dalla potenza narrativa, sociale e drammatica incredibile, senza peraltro adottare un registro visivo e registico occidentale/americano, ormai adottato in quasi tutto il mondo per le pellicole di genere, omologando tristemente gran parte dell’offerta cinematografica. L’autore, Vahid Jalivand, qui in veste anche di attore protagonista, si interroga sulle conseguenze che possono avere le nostre azioni più casuali, e il timore di assumersi le responsabilità che ne derivano. Il film è un thriller insolito, costruito a ritroso nelle vite dei personaggi alla ricerca di un colpevole che forse non c’è e che forse è multiplo, riuscendo a realizzare il ritratto di personaggi psicologicamente complessi e quindi incredibilmente verosimili.
The Florida Project
Con un budget relativamente scarno, il brillante Sean Baker, noto già nei circoli indipendenti per capolavori come Tangerine, riesce ancora una volta a rappresentare brillantemente l’America vera, di cui spesso ci dimentichiamo: quella di chi non c’è l’ha fatta a raggiungere il sogno stile La La Land e che di conseguenza oggi vive ai limiti della società, (in questo caso in albergo viola dall’aspetto fatato). La regia asciutta ed essenziale non lascia spazio per teatralismi e la vita, i drammi e le gioie dei personaggi si consumano davanti ai nostri occhi grazie ad una messa in scena asciutta ed essenziale, attraversata da dialoghi apparentemente improvvisati grazie alla spontaneità della baby star Brooklyn Prince e al mirabile Willem Dafoe (prenotatosi almeno il posto nella cinquina all’Oscar supporting). La fotografia del messicano Alexis Zabe contribuisce a mettere in risalto le tinte pastello fintamente da fiaba dei dintorni del parco Walt Disney, dove il regista decide, in quello che è un infelice parallelismo, di raccontare l’estate di una bambina destinata a crescere troppo in fretta.
Una scena tratta da “A Ghost Story”. |
Di Daniele Ambrosini
A Ghost Story
Il film di David Lowery è un opera piccola quanto coraggiosa che gioca con una premessa semplice ed una messa in scena asciutta ed elegante per realizzare uno degli esperimenti cinematografici più riusciti degli ultimi anni. Raccontando la storia di un fantasma che subito dopo la sua morte ritorna nella casa dove ha vissuto con la compagna, il film imposta una riflessione efficace sullo spazio inteso come luogo dei ricordi, perché alla solita riflessione sulla dimensione temporale della vita, elemento imprescindibile quando viene trattato il tema della morte, Lowery accosta anche la dimensione spaziale, aprendosi ad una prospettiva cosmica, universale, in cui la vita stessa dell’individuo è inevitabilmente collegata ad un luogo che prescinde dal suo tempo e diventa manifestazione fisica e mutevole della storia dell’animo umano. Il fantasma di A Ghost Story, reso fisicamente da un semplice quanto eloquente lenzuolo, è un essere umano privato della sua dimensione fisica, alla ricerca della sua storia e del suo luogo nel mondo, alla ricerca di uno scopo a lui sconosciuto, il suo è un viaggio per ricollocarsi nella giusta posizione temporale-spaziale per ritrovare la sua essenza attraverso i suoi affetti ormai dimenticati. David Lowery con questo film intimo e coraggioso ha portato al cinema un po’ di poesia, una poesia delicata e mai calcata che non ha neanche bisogno delle parole per esprimersi al meglio.
A Ciambra
A Ciambra è una delle vette più alte toccate dal cinema nazionale recente, miglior film italiano dell’anno ed ottimo esempio di racconto di formazione trasversale che trascende l’ingombrante e totalizzante contesto in cui prende piede la vicenda narrata per diventare semplicemente un efficacissimo e sentito film sul doloroso passaggio dall’infanzia all’età adulta. Ambientato nella comunità rom di Gioia Tauro, A Ciambra segue il giovane Pio nella sua vita di tutti i giorni, una vita fatta di delinquenza in cui l’ingombrante famiglia viene prima di tutto. Come è possibile immaginare il contesto sociale è totalizzante, è impossibile per Pio uscire da delle logiche ormai collaudate che vogliono che il suo sviluppo come persona proceda in una precisa direzione, ed il film ripercorre il tormentato processo di adattamento a questo percorso obbligato che costerà al giovane protagonista tanti sforzi e sacrifici. Lodevole il tocco profondamente umano che Jonas Carpignano con la sua scrittura attenta e sfaccettata è riuscito ad infondere al suo protagonista; in un contesto sociale che sembra votato allo svuotamento della coscienza, l’umanità è l’unica cosa che sembra non possa essere portata via al giovane ma combattivo Pio. È impossibile restare indifferenti davanti ad un film così emotivamente pregno e coinvolgente.
Loveless
Sullo sfondo della gelida ed algida Russia si innescano rapporti umani disastrosi e degenerati governati da una quasi totale assenza di empatia, dove lo sguardo cinico di Andrej Zvjagincev riesce a catturare un’istantanea affascinante quanto profondamente decadente di una famiglia a pezzi, che sembra essere il riflesso naturale di quella Russia distante ed spietata con sé stessa quanto con chi la abita. Sorretto da una sceneggiatura perfettamente calibrata ed una regia accurata quanto elegante, Loveless è un film unico in cui il clima di forte repressione emotiva permea la storia fino a modificare radicalmente i propri personaggi. L’ultimo lavoro di Zvjagincev è un film delicato, con una forte componente metaforica che però non prevarica mai la narrazione principale ma, anzi, la arricchisce di significati nuovi senza appesantirla di ingombranti sotto-testi. Infatti niente in Loveless è calcato, pure quando ci si trova a fare i conti con gli aspetti più forti e dolorosi (come ad esempio la perdita di un figlio) il film resta incredibilmente equilibrato. Senza bisogno di eccedere il Loveless mantiene una forza espressiva ed emotiva intrinseca molto forte e questo ne fa uno dei migliori titoli dell’anno.
Tre manifesti a Ebbing, Missouri
Il pluricandidato e pluripremiato film di Martin McDonagh è una delle sorprese più gradite di questo anno cinematografico, non che dall’autore del bellissimo In Bruges non ci si aspettasse molto, ma Tre manifesti a Ebbing Missouri va ben oltre le più rosee aspettative. La commedia nera di McDonagh infatti è scritta con un’arguzia ed una maestria fuori dal comune ed è sorretta da interpretazioni di altissimo livello, su tutte quelle di Frances McDormand e Sam Rockwell. La pungente penna dell’autore inglese torna a riflettere ed approfondire temi a lui cari come quello della giustizia – qui vero e proprio leitmotiv della pellicola, lo scopo da perseguire a qualunque costo – la cui elaborazione giunge a delle conclusioni sul senso della morale e la sua soggettività che non sono affatto banali e che hanno conseguenze significative sull’evoluzione della storia e dei personaggi. Tre manifesti a Ebbing, Missouri è il tipico film che si guarderebbe un milione di volte senza perdere la voglia di vederlo ancora, è un perfetto mix di dramma e commedia dove tutto sembra essere al posto giusto.
A Prayer Before Dawn
Il dramma carcerario di Jean-Stéphane Sauvarie, tratto dall’autobiografia del pugile inglese Billy Moore, è un pugno nello stomaco allo spettatore, in senso estremamente positivo. Ambientato quasi interamente in una terrificante prigione tailandese, A Prayer Before Dawn è un’opera cruda e sporca che trova nella sua ambientazione costrittiva un vero e proprio personaggio, sempre presente e progressivamente sempre più centrale nell’economia della storia, spesso si ha l’impressione che sia la prigione stessa, con le sue storie, i suoi ambienti ed i suoi rumori, la vera protagonista del film. In una pellicola in cui l’incomunicabilità regna sovrana – Billy è un inglese in terra straniera ritrovatosi in un luogo estremamente ostile – la violenza sembra essere l’unica lingua comune. Questo fa sì che inevitabilmente A Prayer Before Dawn sia un film estremamente fisico, molto legato al corpo del suo protagonista e dei personaggi che gli orbitano attorno, un film intriso di sangue e di sudore; una regia dinamica ed attenta ai dettagli, coglie ogni singolo dettaglio del corpo di Billy che diviene esso stesso una prigione, una dalla quale è impossibile uscire. Il dramma carcerario lascia posto al dramma sportivo, la voglia di redenzione subentra alla rabbia e la violenza diventa espressione di qualcosa di diverso, il film diventa un racconto di redenzione che è destinato a scaldare anche i cuori più gelidi. Una graditissima sorpresa.