Di Simone Fabriziani
Poteva essere un film biografico inedito ed eccentrico come il suo protagonista, diretto dalla mano esperta di una regista che in passato ha diretto piccoli cult caustici e sfrontati (su tutti, il celeberrimo American Psycho con Christian Bale), eppure Dalìland non morde, né inquieta, non stimola la visione né infine rende giustizia ai personaggi (reali) coinvolti. Lungi dall’essere un lungometraggio costruito attorno al suo ingombrante protagonista per erigere un agiografico monumento alla sua memoria, Dalìland sfrutta però nel peggior modo possibile l’espediente narrativo, tutto contenporaneo, per il quale il personaggio storico di turno viene raccontato ed analizzato in un determinato lasso di tempo della sua vita,e da un punto di vista narrativo inedito ed esterno.
In questo caso, a fare da occhi ed orecchie al racconto visivo scritto per il grande schermo dallo sceneggiatore John Walsh, è il giovane personaggio interpreto da Christopher Briney, ricalcando un modus operandi che aveva portato i suoi frutti già più di dieci anni fa con il solido e delizioso My Week with Marilyn, con Michelle Williams e Eddie Redmayne. Peccato però che nel buon film di Simon Curtis il focus narrativo era chiaro e senza pretenziosi orpelli, nel nuovo lungometraggio di Mary Harron si ha invece la sensazione di assistere ad una pellicola incompleta, incapace di saper prendere una direzione anziché un’altra, senza una vera tesi da abbracciare e portare con sé fino in fondo.
E non basta di certo la presenza di Ben Kinglsey nei panni di Salvador Dalì a risollevare un esperimento biografico per grande schermo che avrebbe l’ardire di umanizzare le ultime fasi della carriera del grande artista spagnolo prima della sua morte, diviso tra una funerea crisi artistica senza pari ed una vita privata diluita ed insoddisfacente. Il ritratto che Dalìland fa del suo riconoscibilissimo protagonista è quello di un artista alla fine dei suoi giorni, senza più ispirazione, divenuto negli anni più un marchio di fabbrica remunerativo che quella mente geniale, provocatoria e sopraffina che cambiò le sorti del panorama culturale del mondo nel secolo scorso.
Una cornice compassionevole quindi quella che Mary Harron e lo sceneggiatore John Walsh realizzano per il grande artista del Novecento, limitata però da un gusto per il conformismo narrativo che da decenni a questa parte cancrenizza buona parte dei biopic cinematografici, e che proprio non si confà alla figura surreale e totalmente imprevedibile del genio spagnolo che tanto però vuole celebrare con occhi e angolazioni inedite. Piccolo ruolo per Ezra Miller nei panni del giovane Salvador Dalì.
Dalìland arriva nelle sale italiane a partire da giovedì 25 maggio con Plaion Pictures.
VOTO: ★★