Favolacce – La recensione della folgorante opera seconda dei fratelli D’Innocenzo

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Di Daniele Ambrosini

Nati e consacrati dal Festival di Berlino, i fratelli D’Innocenzo, alla loro opera seconda, si confermano tra le voci giovani più intriganti e potenti del nostro panorama cinematografico. Se l’esordio con La terra dell’abbastanza aveva messo in luce la loro abilità nel gestire un film dalla struttura più classica, che si rifaceva esplicitamente alla forte tradizione realista del nostro cinema, realizzando un film solido che presentava una visione lucida della periferia, con Favolacce il duo di registi si reinventa, approcciando quell’universo lì, la periferia romana, in modo diverso, richiamando il realismo magico che ha fatto la fortuna di autori come Matteo Garrone e Alice Rohrwacher, declinandolo, però, in maniera fresca e originale. 

Favolacce è un film corale, è la storia di cinque bambini e le loro famiglie, dell’ambiente nel quale sono cresciuti e delle persone che lo abitano e lo rendono quel che è, ovvero un luogo contraddittorio, ostile, dal quale tutti desiderano consciamente o inconsciamente fuggire. Ed è proprio questo desiderio di evasione e di cambiamento a muovere tutti questi personaggi, che, come noi, sono lasciati alla deriva per tutta la durata del film. 
L’estate di Favolacce ha qualcosa di accogliente e invitante, ma allo stesso tempo è respingente e sinistra. Si respira costantemente l’atmosfera di un sogno, di una favola dolce-amara, che è pronta ad esplodere e diventare tragedia da un momento all’altro. La forza di Favolacce sta nel tono preciso e permeante, che riesce perfettamente a bilanciare una storia dalla forte carica drammatica con una patina fiabesca, una scelta che racconta perfettamente il conflitto centrale del film, quello tra il mondo dei bambini e il mondo adulto. Perché alla fine Favolacce altro non è che un film sullo scontro tra padri e figli, un archetipo narrativo vecchio come la voglia di narrare storie stessa, che grazie a questo suo tocco di leggerezza e alla forza dei contrasti tematici e di tono qui emerge con grande forza. 
Favolacce è un film di formazione atipico nel panorama cinematografico italiano, è un film che riesce nella difficile impresa di portare in scena in maniera adulta una storia che ha in sé una forte componente di spensieratezza infantile. Uno dei maggiori pregi del film dei D’Innocenzo è proprio la facilità con cui mondi diametralmente opposti riescono a convergere e a convivere sullo schermo, diventando complementari. 
Se Favolacce funziona così bene è perché alla costruzione dell’ambiente, del mood generale del film, conferisce anche un valore narrativo vero e proprio. Arrivati alla fine della pellicola vengono, infatti, messi in campo degli elementi di racconto che sono fondamentali per tutto l’ultimo atto, ma che non sono stati propriamente introdotti precedentemente, perché i D’Innocenzo hanno, invece, dedicato tempo e spazio a costruire nel pubblico la consapevolezza delle emozioni e delle motivazioni dei singoli personaggi, senza dover per forza esplicitare tutto e potendosi così permettere delle ellissi narrative importanti, che in un film strutturato diversamente sarebbero state impensabili. 
Favolacce, come dicevamo sembra inserirsi nel solco del realismo magico di Garrone e della Rohrwacher, ma ha anche la freddezza procedurale e l’ironia implicita della new wave greca. Ha un tono tutto suo, molto preciso, che deriva, forse, anche da una buona dose di sana anarchia giovanile, perché, ricordiamolo, i D’Innocenzo hanno scritto Favolacce quando avevano vent’anni. Certo, poi l’hanno ripreso in mano, smussato e aggiustato, ma quella verve giocosa chiaramente riconoscibile e quell’implicito rifiuto delle strutture narrative convenzionali sono elementi che richiamano l’entusiasmo di due ventenni davanti a una pagina bianca e alle sue infinite possibilità. O almeno, è bello pensarla così. 
La cosa bella di un film come Favolacce è che è un film misterioso, quasi inafferrabile per buona parte della sua durata, un film che non si sa dove andrà a parare. Un film pronto a esplodere da un momento all’altro, che poi non esplode mai realmente, ma trova la sua forza nel mantenere sempre lo stesso tono, senza caricare troppo neanche il climax vero e proprio del film, che è, a tutti gli effetti, un surrogato di un’esplosione. 
A un film di questo tipo, che richiede un’immersione totale in un mondo narrato per sensazioni, la sala avrebbe sicuramente fatto bene, molto più che a film dalla struttura narrativa più classica, ma purtroppo non è colpa di nessuno se le sale, ancora per un po’, saranno solo un ricordo. Film così, però, ce ne fanno sentire la nostalgia, dobbiamo ammetterlo. 

VOTO: 8/10