Quando Hitler rubò il coniglio rosa – La recensione del commovente film di Caroline Link

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Di Marco Ascione

Tratto dall’omonimo romanzo semi auto-biografico di Judith Kerr (venuta a mancare nel 2019), il film diretto da Caroline Link ci racconta il nazismo attraverso gli occhi di una bambina. Tra gli interpreti della famiglia Kemper abbiamo Riva Krymalowsky (Anna Kemper), Oliver Masucci (Arthur Kemper) che molti fan riconosceranno come Ulrich Nielsen dalla serie targata Netflix “Dark”, Marimus Hohmann (Max Kemper) e Carla Juri (Dorothea Kemper) che i più cinefili ricorderanno in “Blade Runner 2049” nei panni della dottoressa Anna Stelline.

Il film ci riporta al 1933 in Germania, durante la salita al potere di Hitler, anno in cui le famiglie ebree come i Kemper, sono costrette a lasciare la loro casa per avere salva la vita. Caroline Link utilizza un montaggio classico, senza osare troppo a livello stilistico se non per momenti di massima intensità, come nel momento in cui Julius racconta al signor Kemper di un professore ebreo obbligato a vivere come un cane (nel senso letterale del termine) nei campi di concentramento: in questo caso l’utilizzo di un montaggio frenetico e di piccoli zoom sui loro volti ci trasmette non solo l’orrore delle atrocità commesse dai nazisti e le reazioni degli interlocutori, ma anche la sofferenza che è indotta a vivere Anna, la nostra piccola protagonista.

Interpretata da Riva Krymalowsky (classe 2008), Anna è costretta a viaggiare con la sua famiglia da una città all’altra, lasciando dietro di sé pezzetti di quella piccola infanzia che non potrà vivere e che nessuno le darà mai indietro: il coniglio Rosa del titolo non è altro che una metafora dell’infanzia che Hitler ha portato via a tutti quei bambini ebrei nati sotto il suo dominio. Anna, come tutti quei bambini, è costretta a maturare in fretta e a diventare un “ometto” per usare la parola con cui la chiama il fratello Max: “sei troppo grande per i peluche” le dice nel momento in cui devono lasciare la loro casa di origine, suggellando con quella frase la prima grande perdita per una bambina: la libertà di sognare.

“Nel tuo cuore arde una piccola grande luce Anna, non lasciare che qualcuno o qualcosa la faccia spegnere, dobbiamo continuare a credere nel bene: è importante, il bene vince sempre.” Con queste parole che lo zio Julius dice ad Anna, il film si rivolge a tutti quei bambini maturati prima del tempo, dicendo loro di non demolire completamente il loro essere bambini e di continuare a sperare.

Anna si fa portavoce, anche, di tutti quei rifugiati che hanno dovuto lasciare la propria casa in cerca di posti migliori dove poter vivere, lontani dalla tirannia del governo di turno, senza avere la possibilità di guardarsi indietro. “Addio tavolino” – “Addio casa grigia” dice Anna ogni volta che deve lasciare un nuovo posto: è l’addio rivolto non solo al luogo fisico in sé, ma ai pezzi della sua anima che vi rimangono bloccati, senza possibilità di ricongiungerli. In ogni luogo in cui Anna approda con la sua famiglia, nonostante l’obbligo di imparare nuove lingue e nuove usanze, cerca sempre di mantenere stretto a sé il Tedesco, simbolo della sua casa di origine.

Il ricordo, come scrive Antonio Faeti nella poesia Ladri di infanzie del 1995, non può andare che ad un’altra Anna che scriveva un diario, che, reclusa, amava l’aria, i profumi, i pettegolezzi, le letture, i sogni e l’amore. L’Anna profuga, ebrea come l’Anna del diario, ci invita a meditare e a non dimenticare. Quei tipi con i baffetti […] (che) non devono poter rubare conigli a nessuno […] perché loro sono ladri di giochi, ladri di sogni, ladri di speranze, ladri di infanzie.
Il “tipo con i baffetti”, Caroline Link, decide di non mostrarlo mai, né sui giornali e né sui manifesti all’interno del film, per rendere più forte ciò che Judith Kerr dice metaforicamente attraverso le pagine del libro: di dittatori ce ne sono molti e dobbiamo imparare a riconoscerli perché purtroppo non possiamo identificarli in un solo aspetto. 

Se attraverso i costumi e la scenografia veniamo trasportati completamente nel 1933, la fotografia appare ai nostri occhi del tutto moderna, come a ricordarci che è vero che la storia appartiene al passato, ma un passato che volge lo sguardo al presente, soprattutto per il momento storico che stiamo vivendo: è ciò che il cinema dopotutto ha sempre fatto
È un peccato che questo genere di film non venga pubblicizzato a dovere, come invece accade per altri tipi di film: è vero, il cinema nasce principalmente come mezzo di intrattenimento per distrarre gli spettatori dai problemi della vita quotidiana, ma non si deve dimenticare che, utilizzato nel modo giusto, costituisce un grande mezzo di sensibilizzazione delle masse. In un contesto in cui i giovani trascorrono la maggior parte del loro tempo sui social, apprendendo le notizie attraverso Gif o video su Tik Tok che il più delle volte sono private del significato originale e talvolta trasformate in parodia, il cinema può essere ancora un mezzo necessario per far riflettere i giovani su una storia passata ma che risulta ancora così attuale.

Caroline Link riesce, nel suo modo semplice e naturale di raccontare la storia della piccola Anna, ad immergerci in un lungo viaggio fatto di speranze: quella di una vita migliore, di ritrovare quell’infanzia che è stata strappata via con la forza e la speranza di trovare una nuova casa dove stare; anche se casa può essere ovunque purché si stia insieme alla propria famiglia.
“Quando Hitler rubò il coniglio rosa” dalla regista premio Oscar per il miglior film straniero nel 2003 con “Nowhere in Africa”, Caroline Link, arriverà nelle sale italiane il prossimo 28 aprile distribuito da Altre Storie in collaborazione con Rai Cinema.

VOTO: ★★★½


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