Di Simone Fabriziani
Anni Venti.
Il pittore danese Einar Wegener fa furore tra i salotti artistici della città di Copenaghen mentre la moglie Gerda fa fatica a trovare acquirenti e approvazione accademica per i suoi pregevoli dipinti. L’idillio amoroso ed artistico della coppia di pittori inizia a mostrare le sue crepe nascoste dietro i colori pastello dei paesaggi ritratti quando, un po per gioco e un po per necessità, Einar indossa un abito femminile per posare per un ritratto non terminato risvegliando una parte in lui assopita da tanto, troppo tempo…
Il regista britannico Tom Hooper (già Premio Oscar per “Il Discorso del Re”) conclude con questa pellicola presentata a Venezia e a Toronto, una ideale trilogia del disagio, che sia essa fisica, psicologia e sociale; se in “The King’s Speech” Re Giorgio VI combatteva contro la balbuzie per conquistare un posto nel mondo e per guidare una nazione sull’orlo della guerra, se i romanzeschi personaggi di Victor Hugo che prendono vita in “Les Miserables” lottano contro la fame, la povertà e l’ingiustizia sociale, qui Einar e Gerda lottano contro la paura di perdere e di ottenere ciò che più si ama.
“The Danish Girl” non è soltanto la storia del primo uomo ad aver subito un’operazione chirurgica per il cambiamento di sesso, ma è una sommessa opera sull’accettazione di se stessi e del proprio corpo, lo stesso corpo maschile che Gerda (una sorprendente Alicia Vikander) vede scivolare via dal suo letto e dai suoi affetti ogni giorno sempre di più, nascosto tra i pesanti abiti femminili di Lili/Einar (un Eddie Redmayne impeccabile e più misurato rispetto al suo Stephen Hawking premiato con l’Oscar). La lotta è tutta combattuta tra le mura private di casa e i salotti aristocratici di Copenaghen, e di Parigi poi, fino alla tragica conclusione tra i corridoi di un’abbacinante clinica medica di Dresda.
E poco importa che il film di Hooper sia forse il più debole dei suoi tre più recenti in termini di esecuzione, di collante narrativo e di pathos emotivo (l’azione del film è sorprendentemente “fredda” per i canoni del regista inglese e forse eccessivamente “piatta” per il pubblico delle forti emozioni), al termine della visione si è inevitabilmente catturati dalla squisita atmosfera d’epoca, aiutata da uno straordinario lavoro tecnico di fotografia, scenografia e costumi, e dalle ispirate prove d’attore dei due protagonisti; se Redmayne si conferma prenotato per una seconda Nomination dando voce e corpo ad un essere umano dilaniato dal’interno, la svedese Alicia Vikander si riconferma la grande scoperta cinematografica del 2015: pungente, intensa, impeccabile, è lei il cuore pulsante dell’intera pellicola, è lei la voce dello smarrimento e della disperazione di una straordinaria donna e della sua scelta più difficile: lasciare andare l’uomo che ama, che ha sempre amato, annegato ineluttabilmente nelle profonde paludi della sua infanzia ed impresse per sempre nei suoi enigmatici dipinti.
VOTO: 3/5