Un’altra vita – Mug – La recensione del film diretto da Malgorzata Szumowska vincitore alla Berlinale

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Di Anna Martignoni

Jacek vive e lavora in un piccolo paese della Polonia al confine con la Germania ma sogna un futuro in Inghilterra; ama la musica metal, il suo fidato amico a quattro zampe e la sua ragazza Dagmara a cui chiede di diventare sua moglie. Tutto sembra andare per il verso giusto nel cantiere edile di Jacek, dove si lavora per costruire la più grande statua al mondo raffigurante Gesù; tuttavia, dopo un grave incidente avvenuto proprio sul luogo di lavoro che lo lascia sfigurato, il protagonista è costretto a subire il primo intervento di trapianto facciale della Polonia e la sua vita cambierà per sempre. 

La regista polacca Malgorzata Szumowska porta sul grande schermo il film Un’altra vita – Mug, storia di accettazione e di cristianità (apparente), aggiudicatosi il Gran Premio della Giuria al Festival del cinema di Berlino 2018. Già nel 2013 la regista aveva raccontato del delicato tema dell’omosessualità tra preti nella pellicola In the Name of: anche per Mug, la Szumowska trae spunto dalla religione ma toccando corde differenti. Il leitmotiv che vorrebbe percorrere tutto il film è -e dovrebbe essere- un caposaldo per tutti i praticanti, ovvero la solidarietà verso il prossimo o, se vogliamo, l’empatia verso chi si trova in condizioni meno fortunate delle proprie. Qui, invece, la regista sceglie di adottare uno sguardo decisamente ironico sulla vicenda e sulla solidarietà in generale, mostrando nel dettaglio tutte quelle contraddizioni e falsità che pervadono i piccoli paesi che si proclamano punti fermi del cattolicesimo. 

Un’altra vita – Mug prende spunto da due vicende realmente accadute, la costruzione della più grande statua del Cristo al mondo e il primo intervento di trapianto facciale: ecco quindi che la regista pone le basi sulle quali vorrebbe che lo spettatore ragionasse. Jacek (Matteusz Kosciukewicz) è un ragazzo di campagna ma con grandi aspirazioni per il suo futuro, dato che vorrebbe trasferirsi in Inghilterra con la sua fidanzata Dagmara (Malgorzata Gorol); vive con la sua famiglia facendosi in quattro per essa e lavora al cantiere edile dove è in costruzione la statua del Cristo. Potrebbe non essere un caso, quindi, che quando Jacek precipita dalla sua postazione, si rialza sulle sue gambe senza riportare danni fisici, tranne che per il suo volto. Il ragazzo rimane sfigurato ed è costretto a subire il primo trapianto facciale mai avvenuto in Polonia; la sua salvezza fisica, avvenuta all’ombra di quella statua, si trasformerà in un tormento per la sua anima. Dopo l’intervento il giovane protagonista viene abbandonato e disconosciuto dai suoi compaesani, dalla sua fidanzata e persino dalla sua famiglia, incapaci di tollerare quel viso strano e irriconoscibile che abita il volto di Jacek; solamente la sorella (Agnieszka Podsiadlik) lo sostiene aiutandolo ad affrontare la ferocia della stampa, i pubblicitari che vorrebbero il giovane come testimonial dei prodotti più bizzarri e, al di sopra di tutto, si schiera al suo fianco contro il falso bigottismo che regna sovrano nella piccola comunità in cui vivono, fatto di fedeli che si rifiutano di contribuire per la causa di Jacek al momento delle offerte in chiesa. 
Un’altra vita – Mug viene aperto da una sequenza piuttosto bizzarra: un gruppo di persone si lancia in una corsa in lingerie in un supermercato per accaparrarsi i prodotti migliori ad un prezzo stracciato. In apparenza slegata dal resto del film, questa parentesi viene posta sapientemente all’inizio della pellicola proprio per avvisare lo spettatore di quale sarà il dualismo protagonista: consumismo, falsità e avidità contro solidarietà e purezza d’animo; il resto del piccolo paese si schiera contro Jacek, alienato e distante dalla sua comunità perché ha raggiunto un livello di spiritualità superiore a tutti gli altri. La regista Szumowska dosa in modo intelligente ogni ingrediente, aggiungendo la giusta ironia necessaria allo spettatore per schierarsi dalla parte del giusto. La regia è fluida, convincente sostenuta anche da un’ottima fotografia che spazia da campi lunghi a primi piani con estrema facilità. Non mancano al procedere della narrazione momenti troppo distesi e lunghi posti quasi come riempitivo, ma che in ogni caso non intaccano la bellezza dell’intera opera. 

VOTO: 7,5/10


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