Di Anna Martignoni
A meno di un mese dall’attesissima serata degli Oscar -che, ricordiamo, si svolgerà il prossimo 24 febbraio- permangono molti dubbi su quale pellicola tra le otto candidate porterà a casa la statuetta più ambita, quella di miglior film. Certo, la varietà dei temi proposti è notevole e non si può negare che i titoli in gara siano tutti prodotti di alto livello: avranno maggiori possibilità i biopic Bohemian Rhapsody e Vice oppure gli acclamati BlacKkKlansman e Roma? Verrà favorita La favorita o si lascerà spazio alla novità assoluta di Black Panther? O ancora, riuscirà a trionfare la coppia Cooper-Gaga con A Star is Born?
Esiste però un altro film che si sta astutamente facendo largo verso la vittoria: Green Book. Diretto da Peter Farrelly, esso narra la vera storia di un’amicizia, quella nata tra il musicista Don Shirley e il suo autista Tony Vallelonga.
La chiave del successo di Green Book, e dunque anche la sua possibilità di vittoria ai prossimi Oscar, va ricercata in diversi fattori: in primo luogo nell’eccellente prova attoriale da parte di Viggo Mortensen (il quale si cimenta qui con la lingua italiana) e di Mahersahala Ali, che non a caso si sono guadagnati una nomination rispettivamente nella categoria di miglior attore protagonista e non protagonista; la scorrevole sceneggiatura messa a punto dallo stesso Farrelly in collaborazione con Nick Vallelonga (figlio di Tony) e con Brian Currie, poi, concorre alla buona riuscita di Green Book; e ancora, il preciso montaggio di Patrick J. Don Vito, che riesce a creare un effetto ritmato e dinamico sostenuto da una musica che segue scrupolosamente le vicende dei protagonisti. Tuttavia, il vero punto di forza della pellicola di Farrelly è forse meno evidente, ma pervade il film tanto internamente quanto esternamente: esso risiede nel concetto di differenza, in numerosi elementi posti apparentemente agli antipodi che però si cercano e si uniscono in modo indissolubile per dare vita ad un racconto emozionante e coinvolgente, in grado di toccare le corde giuste e far vibrare l’anima.
La principale antitesi che salta immediatamente all’occhio dello spettatore -specialmente nella prima parte del film- è quella che intercorre tra i due protagonisti. Frank Anthony Vallelonga, meglio noto come Tony Lip, nasce in Pennsylvania da genitori di origini calabresi, ma cresce a New York nei pressi del Bronx. Per dodici anni lavora come buttafuori al Copacabana, famoso nightclub della Grande Mela dove per giunta prende il via il racconto; qui Tony entra in contatto con le maggiori star canore dell’epoca, tra cui Frank Sinatra, Tony Bennet e Bobby Darin, che tanto ne influenzeranno i gusti musicali. Tony è un individuo burbero quanto basta, a tratti un po’ spaccone; si è guadagnato il soprannome Lip grazie alla sua parlantina e alla sua abilità nel convincere il prossimo a fare a modo suo. Il nucleo dei Vallelonga, formato dalla moglie Dolores (interpretata da Linda Cardellini) e due figli, versa in condizioni modeste e Tony, instancabile lavoratore, è pronto ad adattarsi a qualsiasi tipo di impiego pur di mantenere la sua famiglia. In poco tempo finisce col presentarsi ad un colloquio presso la dimora di Shirley, un lussuoso appartamento sopra la Carnegie Hall tempestato di suppellettili provenienti da ogni parte del globo. Questo primo incontro non potrebbe mettere meglio in evidenza il divario esistente tra i due uomini: se Tony è beffardo e grossolano (si presenta al colloquio senza una camicia adeguata e per di più senza cravatta), dal canto suo Don Shirley incarna tutte le caratteristiche che mancano a Vallelonga: eleganza, sobrietà e soprattutto stringatezza. Ad ogni modo, il leader del Don Shirley Trio -formato, oltre che dal pianista Shirley, dal bassista George e dal violoncellista Oleg- necessita di un autista nel minor tempo possibile, poiché è in programma un tour di due mesi nel profondo sud degli Stati Uniti; e inspiegabilmente, solo Tony sembra essere il candidato ideale a ricoprire tale incarico. Inizia così nel 1962 il viaggio on the road della strana coppia a bordo di una Cadillac Coupe De Ville, dalla quale si delinea subito uno scenario inconsueto per l’epoca, ossia un uomo bianco viene pagato per accompagnare un uomo di colore nella sua tournée. Dal sedile anteriore Tony non cessa mai di parlare e quando lo fa è soltanto per fumare o per rimpinzarsi di spuntini, due azioni espressamente vietate ed evitate dal musicista, ma a cui Vallelonga sembra, almeno all’inizio, non dare molto credito. Niente di più lontano da ciò che avviene sul sedile posteriore: alle insistenti domande personali rivolte da Tony, Shirley non risponde o si limita a qualche gentile accenno, poiché è sempre stato abituato ad autisti che gli si rivolgevano solo quando richiesto. Un individuo così discreto e riservato quale è il musicista mai si sarebbe aspettato una personalità esuberante ed invadente come quella del suo nuovo chauffeur. Tuttavia, queste due anime così profondamente opposte e slegate tra di loro finiscono per unirsi e persino a migliorarsi grazie all’elemento del viaggio; in modo molto semplice più Tony e Mr. Shirley passano il loro tempo sulla Cadillac, più iniziano a conoscersi, a trovare argomenti di cui parlare e persino ad aiutarsi vicendevolmente: da un lato Tony salva in più di un’occasione la vita del musicista dalle costanti umiliazioni dettate dalle leggi razziali in vigore in quel periodo; dall’altro, Shirley aiuta Vallelonga a correggere le sgrammaticate lettere rivolte alla moglie Dolores, trasformandole in vere e proprie poesie degne di pubblicazione.
Considerata l’epoca in cui si svolgono i fatti, la vita di Donald “Don” Shirley potrebbe sembrare felice e vantaggiosa, ricca di agi e contornata dal benessere; tuttavia, scavando più in profondità, ci si accorge di quanto ciò sia distante dalla realtà. E, ancora una volta, ritorna il concetto di diversità. Shirley infatti è dotato dalla nascita di uno straordinario talento musicale e, all’età di nove anni, viene spedito a studiare presso il Conservatorio di Leningrado, conseguendo diverse lauree e imparando svariate lingue. Vive in uno splendido appartamento di New York ed è lodato da tutti -persino da Stravinsky- per le sue abilità di pianista. La sua situazione, quindi, non potrebbe essere più lontana e discorde da quella in cui vive il resto della comunità nera, specialmente nel sud degli Stati Uniti: qui vigono leggi razziali al limite della tolleranza, che impongono limiti sulle attività quotidiane (all’epoca infatti era consentito mangiare solo in determinati luoghi, sedersi in precisi posti, camminare su un certo lato della strada e molto altro) e minano la dignità dell’individuo. Non ci si deve stupire quindi del fatto che Shirley abbia poco da spartire con questa gente, non perché si senta superiore, ma semplicemente perché è stato cresciuto lontano da tale realtà e con una differente mentalità. Allo stesso tempo, però, il musicista non fa parte -e non potrà mai fare parte- della società dei bianchi: lo si capisce sin dall’inizio della pellicola, quando a Tony viene detto che dovrà accompagnare Shirley lungo l’itinerario tracciato su “Green Book” (il cui titolo completo è “The Negro Motorist Green Book”), una guida turistica realmente esistita dove sono elencate le strutture che ammettono le persone di colore. Non solo, ma i bianchi benestanti del Sud che tanto acclamano e tanto insistono per avere come ospiti i componenti del Don Shirley Trio nelle loro maestose dimore sono le stesse persone che ipocritamente spediscono l’illustre pianista a cenare in un ripostiglio e insistono affinché non usi il loro stesso bagno. Don Shirley appare così intrappolato in un limbo, un’infausta posizione troppo distante per classe sociale dalla comunità nera, ma allo stesso tempo troppo lontana dalla piena libertà di cui godono i bianchi. Anche la cultura musicale di Shirley mette in evidenza quanto egli sia dissimile dal resto della comunità nera: avendo una formazione prettamente classica, egli conosce alla perfezione le composizioni di Tchaikovsky e Gershwin, ma ignora totalmente le melodie blues e soul, così come i nomi più rappresentativi di tali generi, uno su tutti quello di Aretha Franklin.
Spostandoci su un piano esterno alla narrazione, possiamo affermare che la diversità su cui è fondato tutto il film si riversi in modo positivo anche nella regia di Peter Farrelly. Egli è noto al grande pubblico per aver girato col fratello Bob commedie di enorme successo al botteghino quali Tutti pazzi per Mary, Amore a prima svista e Scemo più scemo. Un film come Green Book sembra essere dunque una novità nel repertorio di Farrelly, quasi una svolta; insieme alla produttrice esecutiva nonché Premio Oscar per The Help, Octavia Spencer -da molto tempo promotrice di pellicole che mettono in evidenza le storie e le condizioni degli afro-americani- il regista è riuscito senza dubbio a regalarci una storia unica, emozionante e allo stesso tempo divertente. Sì perché l’umorismo già presente in tutta la filmografia di Farrelly torna qui in modo più delicato: esso non deriva da situazioni esplicitamente comiche, bensì viene generato dagli attriti e dai diverbi che intercorrono tra Tony e Shirley (molto consigliata a questo proposito la versione in lingua originale). I due uomini sono agli antipodi, non potrebbero essere più diversi di così, ed è proprio questo che crea momenti genuinamente divertenti. In Green Book gli opposti si attraggono, si accettano e si completano l’uno con l’altro, trasmettendo una morale semplice ma potente: la diversità può generare molto spesso comprensione e rispetto.
Tra i maggiori riconoscimenti, Green Book ha ricevuto tre Golden Globe ed è candidato a cinque Premi Oscar.