Il sotterraneo dell’androide: La forma dell’acqua (2017) di Guillermo del Toro

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Di Pietro Lafiandra

La forma dell’acqua è il film paradigmatico del cinema di Guillermo del Toro, l’opera in cui convergono tutte le sue ossessioni: la rivisitazione in chiave fantastica della storia del Novecento, il cinema come cura ed evasione dai dolori del reale, la deformità e quindi, non da ultimo, l’ibrido uomo-animale. 

Dopo una lunga serie di film sulla chimera umana nella fantascienza (Mimic, 1997, in cui degli scarafaggi antropomorfi e antropofaghi mimano l’aspetto umano), sull’ibrido mitologico nel cinema fantasy (Il labirinto del fauno, 2006), dove il fauno guida una ragazzina alla scoperta della sua natura ultraterrena), sul supereroe uomo-animale (Hellboy, 2004, nel quale il protagonista è un diavolo-uomo-caprone giunto dall’aldilà) il regista messicano ragiona sul valore cinematografico del mostro e sul suo rapporto con esso. 
Elevandolo da quel rango di figura di contorno/antagonista, o da protagonista la cui deformità ha unico valore narrativo, che fino a La forma dell’acqua l’ibrido aveva ricoperto nel suo cinema, Del Toro concepisce l’essere anfibio del film come mezzo di riconoscimento, creatura-simbolo, Weltanschaung degli emarginati e strumento di una natura che dichiara la sua uniformità attraverso il diverso.
Nella Baltimora reazionaria e patriarcale del 1962 il deforme/difforme, per quanto rifiutato, allontanato e tenuto nascosto, è in tutto, a partire dai protagonisti, un improbabile melting pot di emarginati sociali che comprende due donne delle pulizie di un laboratorio governativo: Elisa (Sally Hawinks) — la principessa muta — a cui sono state recise le corde vocali non appena nata e che è stata ritrovata in un fiume, Zelda Delilah (Octavia Spencer), una donna afroamericana sposata a un marito indolente, Giles (Richard Jenkins), un artista omosessuale in decadenza a causa degli sconvolgimenti in campo artistico causati dallo svilupparsi della tecnica fotografica e che spera di essere reintegrato nella stessa azienda pubblicitaria che l’ha licenziato, e infine la creatura (Doug Jones), un uomo-anfibio con le branchie e le mani palmate, più pesce che umano, proveniente da una civiltà sconosciuta ai confini del mondo, quella amazzonica, così lontana e temuta da un Occidente — gli U.S.A nel caso specifico — che non ne comprende gli idoli e la cultura.
In un periodo storico, gli anni sessanta, di grandi sconvolgimenti tecnici e politico-sociali (la corsa allo spazio, la guerra fredda, la lotta per i diritti civili) di cui lo spettatore viene costantemente informato dalle numerose televisioni inquadrate negli appartamenti, gli stessi antagonisti, che sono quegli uomini di potere che dovrebbero e vorrebbero esercitare il proprio dominio sulla Storia, sembrano anch’essi degli sconfitti, impotenti di fronte a una crisi identitaria che li porta a lottare per il mantenimento dello status quo con gli l’unici mezzi che ancora gli sono rimasti: la violenza e la forma, due strumenti di esercizio del potere rappresentati dalla figura del colonnello Richard Strickland (Michael Shannon) — il quale ricopre il ruolo che ne Il Labirinto del fauno era assegnato al Capitano franchista Vidal, incaricato di monitorare l’avanzamento degli studi sull’uomo-pesce e rappresentante di un potere che tenta di resistere e sopravvivere allo Zeitgeist, stigmatizzando il diverso in ogni sua forma. 
Il colonnello Strickland è un formalista che chiede ai suoi sottoposti, in particolare al dottor. Hoffsteller (una spia del KGB sotto copertura, incaricata di studiare la creatura) di “rispettare il protocollo” ma che è a sua volta sottoposto alla “dittatura delle stellette”, dovendo rendere conto di ogni sua azione al generale Frank Hoyt (Nick Searcy), suo superiore. Il colonnello Strickland è un dispotico, un aggressivo, ossessionato da un manganello falliforme con pungolo elettrico ad alto voltaggio in “stile Alabama”, un chiaro prolungamento della sua virilità con cui colpisce la creatura a sangue. Il colonnello Strickland è un razzista. Quando Zelda durante un colloquio afferma di non conoscere la forma di Dio, lui risponde che Dio “è umano, assomiglia a un essere umano, come me, o come te… forse più come me, immagino”. Il colonnello Strickland è un machista che si lava le mani solo prima o dopo aver orinato — rigorosamente con le mani sui fianchi —  perché lavarle due volte significherebbe “debolezza di carattere”. Nonostante ciò, il colonnello Strickland rivela la maschera di una società rigida e perbenista che per quanto allontani il deforme, ne è in realtà attratta in maniera morbosa, se non addirittura eccitata sessualmente. Dopo aver visto le cicatrici sul collo di Elisa, l’uomo torna a casa dalla moglie (Lauren Lee Smith) che lo invita a “salire in camera”: durante l’amplesso, la donna viene intimata dal marito a stare zitta (“voglio che tu stia in silenzio”) e ad assumere quindi i panni di Elisa imitando la sua deformità. 
Più tardi, Michael Shannon guarda la protagonista dal monitor di una telecamera di sorveglianza, con l’inquadratura che, ovviamente, ha un’angolazione dall’alto verso il basso, lasciando intendere la posizione dominante dell’uomo che intenzionalmente fa cadere un bicchiere d’acqua per terra e la convoca nel suo ufficio. Qui la rende oggetto di avance sessuali di estrema volgarità (“volevo solo dirti che non mi dispiacciono le cicatrici, non mi dispiace neanche che non parli, anzi mi piace questa cosa, e anche tanto, mi attira, la trovo molto eccitante”). Una rivoltante dimostrazione di onnipotenza che si conclude con una frase pronunciata mentre la donna scappa impaurita, una frase emblematica del rapporto che le figure di potere nel film di Del Toro intrattengono con la deformità/diversità: “scommetto che ti farei gemere”. Con questa battuta, il personaggio interpretato da Michael Shannon rivela la perversione — suggerita più volte dal regista — di tutti gli uomini nelle posizioni di dominio nel film, sarebbe a dire quella di possedere il deforme per poterlo snaturare, così da poter ribadire la propria potenza, istituzionalizzare l’alterità, ristabilire l’ordine sociale e, magari, utilizzare il potere del diverso per i propri scopi (sullo sfondo delle analisi condotte sull’uomo-anfibio c’è la possibilità di superare i russi nella corsa allo spazio).
Sotto questa luce è probabilmente da leggere la deformazione indotta dalla creatura a Strickland, che si vede anulare e mignolo recisi da un morso durante una lotta. Il colonnello prova a considerare la deformità un fattore che non solo non può intaccare la sua mascolinità, ma che addirittura la rafforza. Al telefono con il tenente Hoyt, a domanda sul suo stato di salute, risponde: “due dita, sì, me le ha staccate. Ma ho indice e pollice e medio per la figa”. D’altro canto si fa ricucire le due dita nella speranza di riacquistare la mobilità dell’intera mano e, anche quando si accorge del loro puzzo e del loro progressivo incancrenirsi, continua ostinatamente ad indossarle, rifiutando fino alle sequenze finali la possibilità di restarne privo. La perdita delle dita segnala la variazione della condizione iniziale dell’antagonista che nel corso del film, a partire dalla sequenza del rapimento della creatura da parte di Elisa, Zelda Giles e del dottor. Hoffsteller, passa da despota ad emarginato, esiliato da quello stesso potere che lui esercita sui deboli ma che non tollera il fallimento, la rottura delle prassi, il cambiamento. 
La non accettazione della deformità del proprio corpo è semanticamente legata ad un altro momento di rivelazione del personaggio, un momento dal tono leggero e giocoso, che vede Strickland recarsi da un concessionario per acquistare un’ auto nuova ed essere convinto a comprarla di un colore tra il verde acqua e l’azzurro grazie alla massima imbonitrice pronunciata dal venditore “questo è il futuro, e lei mi sembra un uomo che è diretto là… lei è l’uomo del futuro, fa per lei quest’auto”. Anche in questo caso, acquistando la macchina, Strickland manifesta sia la sua attrazione verso il cambiamento, il diverso e sia la volontà di controllarlo, contemporaneamente negandolo. 
Il verde è infatti ne La forma dell’acqua il colore-simbolo dell’eterogeneità e riempie il decòr praticamente in ogni inquadratura. Sono verdi le tinte della fotografia di Dan Laustsen sin dalla prima scena in cui la casa della protagonista, innondata d’acqua, risplende dei riflessi verde smeraldo della luce. Ma sono anche tantissimi, innumerevoli, gli oggetti di scena di sfumature verdi, giada, muschio, menta, acquamarina. Verde sono le luci al neon nel locale preferito da Giles, un franchise di pasticceria in cui si reca per parlare con il cameriere di cui è segretamente innamorato, con la scusa di mangiare una pessima, verde, torta al lime. Verde è il completo delle donne delle pulizie nel laboratorio, verde il “cartellino” con cui segnalano l’ingresso al lavoro. Verdi sono le caramelle che mastica in maniera compulsiva Richard Strickland. Verde è la “pelle” del mostro. Verde è il colore con cui Giles deve sostituire il rosso in un’illustrazione per commissione. Verde è il colore dell’acqua di fiume, con i suoi limacci e il suo muschio, da cui la creatura è stata prelevata e verdi sono le sfumature dell’acqua del mare in cui verrà liberata attraverso il canale. Il verde è in definitiva il colore del tutto, di ciò che è difforme, e rappresenta una natura proteiforme che, come spiegato dalla poesia declamata dal narratore nel finale del film, ha una forma liquida e inclassificabile in categorie. Strickland rifiuta il verde, come rifiuta tutte le altre cromie, covando un’idiosincrasia rabbiosa nei confronti del colore: in diverse occasioni parla con astio dei “gialli” e dei “neri”, riferendosi al colore della pelle dei cinesi e degli afroamericani, e il suo vestiario é rigorosamente bianco e nero. Comprare un’ automobile verde — nonostante l’uomo ci tenga a precisare che “è turchese” — è sintomo di un cambiamento che prova ma non riesce a mantenere sotto il proprio controllo. Strickland non è l’uomo del futuro, è un uomo che dal futuro e dai cambiamenti che il tempo comporta verrà investito. 

La forma dell’acqua è difatti anche e soprattutto un film sul tempo, il tempo che deforma, modifica e plasma, il tempo che è un agente della deformità. 
Il tempo, la Storia, sono stati il motivo ricorrente (fino ad oggi) della poetica di Del Toro, tant’è vero che il suo esordio cinematografico (considerando solo i lungometraggi) è Cronos (1993), un film in cui il tempo è il fulcro della narrazione. Ma anche da un punto di vista formale, Del Toro ha sempre amato incuneare le proprie narrazioni orrorifiche in epoche tardo ottocentesche-primo novecentesche. Crimson Peak (2015) per esempio, ambientato al termine dell’epoca vittoriana, ma anche La spina del diavolo (El espinazo del diablo, 2001), che ha luogo all’inizio della seconda guerra mondiale, Il labirinto del Fauno, che restituisce in chiave fiabesca il termine della guerra civile spagnola. 
Sulla base di ciò, domandandosi quale sia l’accezione simbolica dell’acqua, una delle interpretazioni più interessanti è quella che vedrebbe legati acqua e tempo, una chiave di lettura ispirata sin dalle prime sequenze del film, nella fattispecie dall’aforisma “il tempo è un fiume che scorre dal passato” che Elisa legge strappando la pagina di un calendario. 
L’uomo-anfibio è un essere immortale, un dio, come ammesso dallo stesso Strickland nel finale del film, che, in quanto tale, ha pieno controllo del tempo e lo dimostra sia ai con un atto semplice, di estrema dolcezza: Giles vive in una perenne malinconia ed è costantemente rivolto al passato (“Se potessi tornare a diciotto anni, io non sapevo niente di niente, oggi mi darei dei consigli. Mi direi: “prenditi più cura dei denti e scopa molto di più””,”Vedo lo specchio, e l’unica cosa che riconosco sono gli occhi, nel corpo di un vecchio”), frustrato da un presente in cui è un outsider come uomo (la società non accetta la sua omosessualità) e come artista-lavoratore (l’opera di pittori e illustratori è sempre meno richiesta). La creatura allora, per scusarsi di una ferita infertagli accidentalmente al braccio, prima la risana e poi gli pone le mani sul cranio, innescando un processo temporale a ritroso che porta i capelli del vecchio a ricrescere. 
Non solo Giles, tutti i personaggi principali sembrano essere anacronistici, depositati in un periodo storico che non sentono proprio e che non legittima la loro natura. Dalla creatura che, proprio come gli dice l’anziano pittore, è la reliquia di un mondo spirituale lontano e incomprensibile all’Occidente del ‘900 e che viene considerata “un affronto” dalle autorità, a Elisa e Zelda, relegate a mansioni ritenute unicamente femminili (le pulizie) — ma che per questo sono in perenne contatto con l’acqua — e discriminate, una per il suo handicap, l’altra per il colore della pelle, fino al dottor Hofsteller, un medico scienziato che, come spesso capita nel cinema di Del Toro, è un personaggio estremamente positivo (come si è visto, fatto non usuale nella rappresentazione dello scienziato in rapporto all’ibrido) che deve però barcamenarsi nel fuoco incrociato di U.S.A e Russia, che vorrebbero uccidere l’uomo anfibio quando lui vorrebbe sì studiarlo, ma anche preservarlo e poi liberarlo. 
Lungo tutta la durata del film vengono inquadrati tantissimi orologi e i riferimenti alla conservazione del tempo e alla paura del cambiamento sono molteplici: i figli di Strickland devono seppellire a scuola una macchina del tempo. La fuga pianificata per la creatura deve essere attuata in un tempo preciso e con una scansione ritmica definita. Strickland stesso deve “correre contro il tempo” per salvare la missione e la propria reputazione. Lo studio del mostro si risolve in una gara, nella competizione tra Stati Uniti e Russia, giocata sull’anticipo e sul tempismo. 
Lo spettatore è introdotto al rapporto simbolico tra acqua e tempo sin dal prologo in cui la voce over del narratore, una voce che, per statuto, è atemporale, avendo il controllo sul tempo e sul mondo rappresentato, si dispiega sulle inquadrature della casa di Elisa, innondata dall’acqua. 
La prima inquadratura narrativa del film è introdotta dal suono omodiegetico delle lancette di un orologio e dal rumore squillante di una sveglia, subito seguita da un breve piano sequenza che passa dal particolare della mano di Sally Hawkins che apre l’acqua della vasca da bagno al primo piano del suo volto. La macchina da presa compie poi una carrellata verticale per mostrare il cinema sotto l’appartamento di Elisa e Giles, dove stanno proiettando La Storia di Ruth (Henry Koster, 1960), e riprendere la protagonista dire “ho dubitato della necessità del sacrificio”. Si torna poi a Elisa che sta puntando un timer oviforme e cucinando della uova (uova con cui entrerà per la prima volta in contatto con la creatura), dopodiché la donna si immerge nella vasca da bagno e si masturba. Così, nella prima sequenza Del Toro ha già esposto praticamente tutti i temi che verranno trattati nel film: la sessualità, l’amore e il sacrificio, il tempo e anche il cinema come mezzo di evasione dalla realtà. Perché l’acqua non solo scorre come il fiume del tempo, ma ingloba e accoglie, donando leggerezza a un mondo che leggerezza non ha. 
La forma dell’acqua è un film sui diversi e gli sconfitti e per i diversi e gli sconfitti, per chi nel cinema trova conforto, comprensione e riconoscimento. 
La storia d’amore tra il mostro e Elisa, una rilettura de La Bella e la Bestia in cui entrambi i personaggi sono sia la Bella che la Bestia, nasce dalla percezione di una simbiosi, dalla funzione di specchio che l’animale, uomo-animale ricopre, che, rispetto a quanto si è detto nell’introduzione, viene ribaltata nel film di Del Toro. Lo specchio non è più oscuro, ma un mezzo di riconoscimento positivo che porta alla rottura di alcuni clichè (è la Bella a rapire la Bestia, e non viceversa, il mostro non va trasformato in un principe come ne La Principessa e il ranocchio, ma è già di per sé un principe, ed è piuttosto Elisa che tramuta le sue cicatrici in branchie per vivere sott’acqua con l’amato). 
È proprio Elisa a spiegare a Giles e allo spettatore il perché del suo amore per l’uomo-anfibio in una delle scene più toccanti del film.
Elisa è in casa con Giles che si deve recare all’azienda per sottoporre le modifiche apportate al proprio dipinto. La donna lo ferma e gli confessa di voler far scappare la creatura “perché è la cosa più sola che abbia mai visto”, ma l’amico la schernisce per questo suo desiderio, asserendo che, ripetendo le sue esatte parole, il mostro è “una cosa” e non “un uomo”. La donna, esausta, gli chiede di ripetere quello che lei dice con il linguaggio dei segni e, mentre la macchina da presa si avvicina sempre di più ai personaggi, Giles le presta la voce.

Io cosa sono? Muovo la mia bocca come lui. Non emetto alcun suono come lui. Cosa sono, dimmi? Tutto ciò che sono, ciò che sono sempre stata, mi ha portato qui da lui. Quando mi guarda, il modo in cui mi guarda, lui non sa che cosa mi manca o quanto io sia incompleta, lui mi vede per quello che sono, come sono, lui è felice di vedermi ogni giorno, ogni volta e ora io posso salvarlo oppure lasciarlo morire. 
Elisa si rivede nell’uomo-animale, trovando in lui le stesse deformazioni che a lei impediscono di vivere in società e di esserne accettata. Guardare il mostro è un modo di identificarsi, di rivedere se stessa e di trovare comprensione. La deformità è un’occasione di somiglianza. 
In questa scena il regista descrive il meccanismo di riconoscimento (lo stesso meccanismo che probabilmente ha portato anche Del Toro ad innamorarsi dei monster movies degli anni ’30-’40) non solo della donna ma anche dello spettatore cinematografico che, come l’adolescente di cui parlava Walter Evans in Monster Movie: a sexual theory, si scopre descritto dalla bestia, dall’uomo-animale e legittimato da un cinema che, pur dipingendone la violenza, è sempre stato molto comprensivo nei confronti del dolore intimo dei suoi mostri: il Frankenstein di James Whale, alla ricerca di un posto del mondo e di una compagna. La mosca di Neumann e di Cronenberg, che assiste all’inesorabile deterioramento del proprio corpo. King Kong, che vede la sua isola invasa. L’uomo lupo di Waggner e Irena ne Il bacio della pantera che non riescono a controllare la rabbia e il desiderio sessuale, come d’altronde anche la creatura della laguna de Il Mostro della laguna nera, a cui il character design del mostro de La forma dell’acqua è palesemente ispirato nel suo aspetto longilineo e nella sua sessualizzazione (alcuni collaboratori di Del Toro hanno affermato che il regista fosse letteralmente ossessionato dalle fattezze del sedere). 
La sessualità nel film riveste un ruolo centrale dal momento che il primo rapporto tra i due corrisponde con  la definitiva accettazione di Elisa del suo amore, non più una passione da nascondere e di cui vergognarsi ma un sentimento da condividere: la protagonista spiegherà infatti a Zelda il meccanismo anatomico che permette all’uomo-pesce la penetrazione in una delle scene più famose del film. 
La (non)scena di sesso, trattata da Del Toro con la delicatezza richiesta dall’atmosfera fiabesca del film, è un momento di catarsi per Elisa che abbandona la paura verso il corpo alieno e entra in contatto con l’alterità, esattamente come ne La bella e la bestia. 
Inizialmente, la donna respinge il mostro, ma, una volta uscita dalla stanza, quando sta per iniziare a masturbarsi, decide di tornare nel bagno dov’è lui è rinchiuso e abbandonarsi. Il fatto che questa scena sia immediatamente succedanea a quella di masturbazione è da ricondurre alle dimensione onirica della storia. La creatura potrebbe essere anche solo una proiezione erotica della protagonista, il sogno di libertà di un emarginato, la narrazione che cura ogni dolore. È il narratore stesso, sin dalle prime battute, ad ammonire lo spettatore “sulla veridicità dei fatti”. Come sempre nel cinema di Del Toro, il confine tra sogno e realtà è estremamente labile e ne La forma dell’acqua, col suo tono apertamente fiabesco e il suo continuo ricorso al film, allo schermo cinematografico, questa percezione è esasperata. 
Il citazionismo cinematografico di cui tutto il film è costellato sia internamente (La storia di Ruth, Hello, Frisco, Hello! (H. Bruce Humberstone, 1943) che esternamente (Il mostro della laguna nera, Splash – Una sirena a Manatthan (Splash, Ron Howard, 1984) — e che è stato malvisto da una parte di pubblico e critica — è quindi giustificato da una rappresentazione del cinema che si inserisce nella realtà per renderla leggera come un sogno, come acqua che sana le ferite, che accoglie indiscriminatamente tutti gli spettatori sospendendo il tempo. 
L’amore tra Elisa e la creatura è un amore che pare appartenere al periodo muto del cinema. Nessuno dei due parla, la loro comunicazione avviene unicamente attraverso il corpo, il linguaggio dei segni (con Elisa che prova a spiegarne al mostro i simboli) e, soprattutto, è perennemente accompagnata da musica orchestrale, come accadeva nei primi anni del cinematografo. Il loro è infatti anche un amore da musical, un amore poetico e drammatico, che si propaga su una colonna sonora onnipresente, sia omodiegetica, fatta di vinili e musical trasmessi in televisione, ma anche extra diegetica, la colonna sonora premio oscar di Alexandre Desplat che segue tutti i momenti intimi della coppia, dal primo rapporto sessuale (La Javanaise di Madeleine Peyroux) al bacio sommerso (Overflow of Love scritta dallo stesso Desplat), dove l’acqua con cui Elisa riempie la stanza perché possa avvolgere lei e la creatura cola dall’appartamento fin dentro al cinema. 
Del Toro rende esplicita l’essenza cinematografica dell’amore tra la donna e la bestia in due momenti distinti: prima quando, nella scena in cui Elisa cerca il mostro, scappato dopo aver mangiato un gatto ed essere stato redarguito da Giles, lo trova rifugiato nel cinema sotto casa (di nuovo viene ribadita l’idea del cinema come rifugio dalla realtà) e poi in una sequenza estranea al corpo estetico del film, proprio per questo dal chiaro valore simbolico. 

Elisa e la creatura sono al tavolo come una normale coppia, la donna ha appena guardato il calendario e scoppia a piangere all’idea che, il giorno seguente, dovrà liberare l’uomo-anfibio perché possa tornare nell’acqua. I due hanno un breve, commosso dialogo, quando, nel momento di massima disperazione, una canzone giunge alle orecchie di Elisa dalla televisione: è You’ll never know cantata da Alice Faye nel musical Hello, Frisco, Hello!. In quel momento solo uno spot di luce resta ad illuminare la scena, puntato su Elisa che, incredibilmente, recupera la voce, iniziando a canticchiare la melodia del brano (You’ll never know just how much I love you) [Non saprai mai quanto ti amo] mentre il colore lascia progressivamente posto a un intenso bianco e nero. Una volta finita la transizione cromatica, Elisa si alza in piedi, ripresa in piano americano, e quella che era una voce flebile, solo accennata, diventa un cantato pieno e sognante, in pieno stile musical, mentre la camera in piano sequenza passa dal piano americano al campo lungo, evocando alle sue spalle un’imponente scenografia composta da un palco, una struttura a forma di cono al suo centro, delle scale e un’intera orchestra. Al suo fianco si può vedere la creatura in piedi, pronta a prenderle la mano e dare inizio ad una danza con lei. Un ballo che si consuma in pochi secondi perché, dopo qualche passo la macchina da presa riporta a una realtà in cui Elisa canticchia e lentamente riperde la voce. 
Nonostante il chiaro intento parodico della sequenza e l’ilarità che non può suscitare la goffaggine del mostro, sradicato dal proprio contesto di origine e depositato su un palco molto simile a quello su cui ha luogo la cerimonia degli Academy Awards, attraverso il musical la sua presenza sembra perfettamente naturale e l’amore tra i due, decantato dalla donna, risulta altrettanto legittimo. Mentre nella quotidianità Elisa e la creatura si devono nascondere per baciarsi o anche solo abbracciarsi, seguendo una logica a “matrioska”, dentro a una casa, nella stanza da bagno, sommersi nell’acqua, qui la loro danza può avvenire sotto gli occhi di tutti. Fuori dal tempo, fuori dal reale, nella dimensione del sogno, nella dimensione del cinema, il deforme viene accolto e non esiste nessuna Bella e nessuna Bestia, perché qualsiasi amore può essere possibile.