Di Gabriele La Spina
Produzione italo-francese, Occhi senza volto (titolo originale Les yeux sans visage) è una pellicola accolta malamente alla sua uscita nelle sale nel 1960, forse eclissato dallo stupefacente successo di Psyco di Alfred Hitchcock nello stesso anno. Il regista Georges Franju vide il suo film etichettato dalla critica come un film di cattivo gusto e saturo di violenza. Celebre l’affermazione della scrittrice Isabel Quigly che lo definì: «Il film più malato che abbia mai visto». Con il tempo però Occhi senza volto è stato nettamente rivalutato dalla critica e ad oggi è entrato nell’olimpo dei cult senza tempo.
Christiane Genessier, in seguito ad un incidente di macchina, del quale è responsabile suo padre, il dott. Genessier, ha avuto il volto completamente sfigurato: solo gli occhi sono rimasti sani. Da quel momento il dott. Genessier, che dirige una clinica, è tutto preso dall’idea di trovare un efficace rimedio alla sventura che ha colpito la figliola. Egli si dedica quindi ad esperimenti segreti intesi ad accertare se vi sia la possibilità di trapiantare sul volto sfigurato di Christiane la pelle del viso di una persona sana. Il dott. Genessier è assistito nel suo lavoro da una donna che ha l’incarico di adescare le ragazze che dovranno servire a questi crudeli esperimenti. Una di queste ragazze muore e il dottore, per sviare i sospetti, induce la sua assistente a gettare il cadavere nel fiume; allorché viene ripescato, Genessier afferma trattarsi di sua figlia, e dispone che la spoglia venga sepolta nella tomba di famiglia. Un’altra delle sue vittime si uccide; anche questa viene sepolta segretamente nella stessa tomba.
Adattamento del romanzo di Jean Redon, Occhi senza volto è un film di straordinaria eleganza stilistica, un’interrogazione esistenzialista travestita da semplice noir. Non si tratta di una mera parabola sulla chirurgia plastica e l’immoralità che scaturisce, quello di Redon è un racconto sul senso di colpa e la redenzione. E’ palpabile l’immensa melanconia dei personaggi del film, a partire dal dott. Genessier, tormentato dall’aver distrutto la vita della figlia e per questo ossessionato dall’idea di porre rimedio; e la figlia Christiane, costretta a vivere in una gabbia dorata, schiacciata dal tormento del padre, elemento illustre della borghesia francese, convinto che la figlia ormai sfigurata non abbia alcun posto in una società ossessionata dal culto della bellezza. Christiane è anch’essa tormentata dalla colpa di aver dato inizio a una scia di omicidi per la ricerca del suo nuovo volto e risulta l’unico eroe della storia che sovverte il piano del padre e conquista la sua libertà accettando ciò che ormai è. Quella di Edith Scob, nei panni di Christiane, è una performance che incamera tutta la sofferenza e lo struggimento del personaggio, dove ogni sensazione viene ovviamente trasmessa attraverso lo sguardo, a volte vacuo altre di grande profondità.
Un film quasi surreale, che gioca sul fattore mistero senza mai svelare fin troppo allo spettatore, arricchito dalle musiche di Jean Redon che, a cominciare dall’iconica sequenza introduttiva, contribuisce alla resa di quell’atmosfera sinistra ed estremamente “creepy” che caratterizza la storia. Il film di culto di Franju, rivalutato come capolavoro quasi 20 anni dopo la sua uscita, ha ispirato diverse pellicole nel corso degli anni tra cui Apri gli occhi (1997) di Alejandro Amenábar e La pelle che abito (2011) di Pedro Almodóvar, nonché romanzi come Invisible Monsters (1999) di Chuck Palahniuk. Nel 1987 ne è stato tratto un terribile remake dal titolo Faceless (in Italia “I violentatori della notte”).