Di Daniele Ambrosini
Il 2018 è stato un anno cinematograficamente molto ricco che ci ha regalato grandi film e, con questi, momenti indimenticabili. Per celebrare proprio questi momenti che nel corso dell’anno hanno reso uniche le nostre visioni, abbiamo deciso di stilare una classifica delle migliori sequenze dell’anno. Una classifica che contiene le scene, a volte singole inquadrature, più coraggiose, riuscite ed emozionanti del 2018, quelle piccole porzioni di film che sono riuscite ad arricchire in modo significativo non solo il film da cui sono tratte, ma anche la nostra esperienza complessiva come spettatori.
Da A Star Is Born a Un affare di famiglia, dal cinema commerciale a quello indipendente, passando per vari generi, la nostra classifica ripercorre il meglio dell’anno attraverso approcci stilistici molto differenti tra loro e visioni registiche del tutto originali e degne di nota. Preferendo dare spazio alle sequenze più anticonvenzionali e a quelle dalla maggiore forza cinematografica intrinseca, abbiamo ridotto la nostra selezione a 10 momenti chiave, a 10 momenti iconici che meritano di essere celebrati e di rimanere impressi nella memoria collettiva molto a lungo.
Sono stati presi in considerazione per la classifica solo film distribuiti nelle sale cinematografiche, su Netflix o in home video nel corso dell’anno, escludendo perciò eventuali film visti in anteprima e non ancora distribuiti sul territorio italiano, poiché per analizzare singole sequenze di questi film è necessario entrare nel dettaglio e fare degli spoiler, per questo stesso motivo consigliamo di non avventurarsi nella lettura dei paragrafi dedicati a film da non ancora visionati. Laddove disponibile è stata allegata una clip o una featurette della scena presa in analisi.
Scena: L’interrogatorio
Avviandosi verso il finale, Un affare di famiglia assume un tono completamente diverso da quello che aveva avuto fino ad un momento prima. Arrestati per aver nascosto alle autorità la morte di Hatsue, per continuare a percepire la sua pensione, e per aver tentato di fuggire, i compagni Nobuyo e Osamu confessano di aver rapito dei bambini e di averli cresciuti come figli propri, di avergli insegnato a rubare per sopravvivere, di aver nascosto il cadavere di Hatsue e di essere coinvolti in un caso di omicidio risalente a molti anni prima. La famiglia Shibata, tenuta insieme da legami di necessità e reciproca dipendenza, e non dal sangue, di colpo non esiste più. Il confronto di Nobuyo e Osamu con le autorità avviene nel corso di due intensissimi interrogatori ed è il punto più alto toccato da Hirokazu Kore-eda in Un affare di famiglia. Nel corso di quella dolorosa conversazione i due sono costretti a rielaborare il loro passato e ad arrendersi definitivamente, a dire addio al loro sogno di essere una famiglia. Kore-eda si concentra sul volto dei suoi protagonisti, inquadrati frontalmente a camera fissa, mentre questi, con brutale onestà, parlano di maternità ed eredità, spiegano e, allo stesso tempo, cercano di comprendere perché abbiano fatto ciò che hanno fatto. Ciò che ne risulta è una scena di un’intensità drammatica palpabile, una scena che colpisce dritto al cuore come un pugnale, che costringe anche lo spettatore a rielaborare quanto visto in precedenza e ad interrogarsi sul peso morale di quanto accaduto sotto i suoi occhi fino a quel momento. Niente musica ad accompagnare la scena, ma un assordante e pesantissimo silenzio che rende le lacrime di Nobuyo ancora più strazianti.
7. A Quiet Place
Scena: Il finale
La centralissima scena del parto e la fondamentale scena del sacrificio paterno sono probabilmente i momenti più memorabili di A Quiet Place, ma c’è un piccolo e davvero riuscito accorgimento registico e narrativo, talmente riuscito e ben piazzato, da meritare un posto in questa classifica. Sul finale del film diretto da John Krasinski, Regan, la figlia maggiore della famiglia Abbott, scopre che l’apparecchio acustico costruito dal padre crea un’interferenza sonora insostenibile per gli alieni che gli stanno dando la caccia e, sfruttandola, la madre riesce ad uccidere una creatura. Il suono dello sparo chiama a sé altri due alieni, che, da quel che ci è dato sapere, sono gli unici altri esemplari presenti nella zona. In quel momento, Regan abbassa lo sguardo verso un amplificatore collegato ad una radio, alza la frequenza delle onde radio al massimo e lo impugna, in quel momento la macchina da presa si sposta verso il volto della madre interpretata da Emily Blunt. Nel suo sguardo la speranza ha preso il posto della paura per la prima volta dall’inizio del film, mentre un sorriso beffardo le spunta sul volto proprio nel momento in cui imbraccia il suo fucile e lo carica con decisione. Adesso sono loro ad avere il controllo della situazione. A Quiet Place finisce su questa bellissima inquadratura, stracolma di un inedito senso di rivalsa. Non abbiamo bisogno di vedere la morte delle altre due creature perché questa è contenuta in potenza in quell’ultima inquadratura. Di questi tempi è raro trovare un film che finisca esattamente nel momento giusto, con un finale così azzeccato.
Scena: La scontro al faro
Nell’ultimo atto di Annientamento, Lena, la biologa ed ex soldato interpretata da Natalie Portman, giunge verso la fine del suo viaggio al’interno della misteriosa ed anomala iridescenza elettromagnetica, chiamata semplicemente Area X. In un vecchio faro scopre la più inspiegabile delle singolarità biologiche: un umanoide che si viene a formare a sua immagine e somiglianza. Lena intraprende una strana lotta contro la creatura che imita ogni sua azione, come nel tentativo di acquisirne i movimenti, la fisicità e la naturalezza di cui non è ancora dotata per diventare sempre più mostruosamente umana. Quello che inizia come una scontro violento, si trasforma in una strana e mistica danza dal sapore ancestrale, verrebbe da dire quasi tribale, in cui Lena e l’umanoide si scrutano a vicenda nel profondo per tentare di comprendere le intenzioni e, soprattutto, la natura l’una dell’altro. Alex Garland dirige con eleganza una sequenza di quasi cinque minuti, in cui non viene detta neanche una parola, che tiene col fiato sospeso dall’inizio alla fine, una sequenza adrenalinica ed intimista allo stesso tempo, musicata splendidamente da Ben Salisbury e Geoff Barrow. L’enigmatico finale, poi, costringe a ripensare e rielaborare questa scena, fondamentale nell’economia della storia.
Scena: La decapitazione
In seguito ad una crisi respiratoria causata dalle noccioline, alle quali è fortemente allergica, Charlie sporge la testa dal finestrino dell’auto per inspirare una quantità maggiore di aria, mentre il fratello, che è al volante e sta guidando a tutta velocità, è costretto a sterzare violentemente, la testa di Charlie sbatte contro un palo della luce e si stacca di netto, finendo sulla strada. Un lungo ed intenso primo piano sul volto di Alex Wolff fa decantare il senso di stupore che questa scena porta con sé.
Dal materiale promozionale di Hereditary si potevano ricavare due informazioni fondamentali: Charlie, il personaggio di Milly Shapiro, sarebbe stato centrale nel film e la storia sarebbe stata mossa da un lutto in famiglia. Ovviamente entrambe queste informazioni si sono poi rivelate, almeno in parte, sbagliate. Non c’è una sola morte a trainare la storia, ma bensì due, e, visto il ruolo di rilievo occupato dalla Shapiro nella promozione del film, era davvero impossibile immaginare che il suo personaggio sarebbe morto in un macabro incidente d’auto dopo solo mezz’ora dall’inizio. Ari Aster assesta il primo, durissimo colpo molto presto, durante il primo atto, stravolgendo del tutto il suo film e costringendolo ad evolversi in modo inaspettato e imprevedibile. La morte di Charlie è una delle sequenze più coinvolgenti dell’anno, proprio per quanto impreparati si arriva a quel momento, proprio per il lavoro di preparazione fatto da Aster anche al di fuori del film stesso per garantire la miglior recezione della scena da parte del pubblico.
Scena: Shallow
La prima parte di A Star Is Born è tutta costruita in funzione di un particolare momento: la prima esibizione di Ally e Jackson. Il pubblico sa che quel momento arriverà e Bradley Cooper è così sicuro della potenza del brano portante, “Shallow”, e della carica emotiva della scena che vi ha costruito intorno che fa la cosa più intelligente possibile: crea un sistema aspettative nei confronti di quel fatidico momento. Non è un caso che la canzone fosse inserita nel primo (ed unico) trailer del film rilasciato a giugno, e che sia l’unica canzone che viene anticipata all’interno del film, essendo cantata in una versione grezza e acustica in una scena antecedente. Quando Jackson convince Ally a salire sul palco per la prima volta al suo fianco, ciò che accade è pura magia, soprattutto perché Lady Gaga è finalmente libera di fare ciò che le riesce meglio: cantare. E buona parte del sistema di attese costruito da Cooper si basava proprio su questa premessa, la prima esibizione della pop star. E mentre il pubblico è catturato dalla voce di Gaga, Cooper e Matthew Libatique costruiscono una scena visivamente sontuosa, colorata ed emotivamente carica, in crescendo. Dalle forza delle sue stesse parole, Ally trova il coraggio per superare la timidezza ed unirsi alla gioia collettiva che esplode di fronte a lei. Immagini e musica si fondono perfettamente in quella che è senza dubbio una delle scene più iconiche dell’anno.
Scena: L’irruzione
La scena dell’irruzione nel bordello in A Beautiful Day (You Were Never Really Here) è una delle sequenze più originali e coraggiose dell’anno, forse del decennio. Lynne Ramsay decide consapevolmente di non voler cadere nella trappola della glorificazione della violenza e nella sequenza più cruenta della sua pellicola prende le distanze dall’azione quanto più possibile, riprendendo il tutto attraverso delle videocamere di sorveglianza piazzate all’interno della struttura. La regista inglese si affida al mezzo più impersonale possibile, non presentando integralmente, ma solo accennando l’azione e la violenza che il pubblico è consapevole si stia consumando in quel preciso momento. Attraverso la momentanea spersonalizzazione offerta dalla pertinente scelta registica e attraverso le omissioni di montaggio, la Ramsay ci sta dicendo qualcosa in più sul suo protagonista: Joe è un giustiziere guidato dall’onore e da un profondo senso di giustizia, che non trae alcuna gratificazione della sue azioni e dallo spargimento di sangue, e così non dovremmo farlo neanche noi. La violenza non è glamour e mostrarla integralmente non porterebbe alcun beneficio narrativo in quel particolare frangente, ma, anzi, ne enfatizzerebbe il ruolo all’interno della storia, fino a renderla concettualmente giustificabile. Lynne Ramsay ha costruito una sequenza davvero molto audace, che in soli due minuti contiene l’essenza del suo protagonista e, in senso più ampio, dell’intero film. Semplicemente magistrale.
Scena: Il parto
Cleo sta per avere una figlia che non aveva mai voluto; il suo traumatico travaglio è iniziato dopo che il padre della bambina le ha puntato una pistola alla testa nel corso di una violenta rivota nella quale si è ritrovata coinvolta malgrado la sua volontà. Un lungo ed interminabile viaggio per una città paralizzata dal caos l’ha portata in ospedale, dove, nel giro di poco, è stata trasportata in sala parto. In un piano sequenza a camera quasi completamente fissa, fatta eccezione per una sola virata verso destra per vedere la bambina, Alfonso Cuaròn riprende gli ultimi sforzi di Cleo per dare alla luce la figlia, il tentativo rianimazione del piccolo corpo da parte dei medici, un primo e ultimo abbraccio tra la madre e la bambina ormai dichiarata morta, ed infine l’avvolgimento della salma in un lenzuolo. Cleo è sempre a fuoco, mentre tutto intorno a lei appare confuso, poco chiaro. I dottori parlano tra di loro con una tranquillità sconcertante, quasi ignorando la sofferenza di Cleo che, ben visibile ai nostri occhi, sta soffrendo per la morte di una figlia che non voleva, ma che, allo stesso tempo, non era preparata a non avere. Cuaròn per questa sequenza realizza un’unica, complessa inquadratura, posizionando la macchina da presa ad una distanza intermedia, abbastanza vicina da potersi concentrare sulla sua protagonista e restituirle umanità e comprensione, ma anche abbastanza lontana da poter mantenere quell’aura di spietato realismo e distacco narrativo proprio del film; insomma esattamente alla distanza perfetta per bilanciare le esigenze filmiche di oggettività e soggettività di Roma come film nel suo complesso. Cuaròn racconta una storia intima attraverso il filtro di una narrazione estetizzante ed apparentemente disinteressata, e la scena del parto è la perfetta esemplificazione del suo approccio registico, in grado di rappresentare a livello visivo il distacco tra Cleo e l’ambiente circostante. Il perfetto tempismo, il coinvolgimento garantito dalla tecnica del piano sequenza, l’interpretazione intensa di Yalitza Aparicio e l’enorme peso concettuale insito in questa scena la rendono la più indimenticabile dell’anno.
Scena: Oliver scopre la pesca
In una delle scene più chiacchierate di Chiamami col tuo nome Elio, il protagonista interpretato da Timothèe Chalamet si abbandona ad un atto di autoerotismo utilizzando una pesca come supporto. La sensualità con cui il frutto viene prima scrutato, osservato ossessivamente fino a diventare un oggetto del desiderio, e la noncuranza con cui questo viene, poi, usato, quasi violentato, sono gli elementi fondamentali di questa iconica sequenza, in grado di aprire una conversazione su temi come sessualità e desiderio in maniera estremamente lucida; ma sta alla scena successiva portare a compimento quanto solo accennato nella scena in solitaria di Chalamet. Con l’entrata in scena di Oliver, Elio inizia a vergognarsi del suo gesto precedente, e scoppia in lacrime quando nota che questi tenta bonariamente di scherzare sulla situazione. In quel momento tutti i conflitti interni al personaggio esplodono; Elio, costretto a condividere un aspetto fino a quel momento privato della propria personalità, si ritrova a dover fare i conti con tutta la confusione provocata dai repentini cambiamenti cui è andato incontro. La sua incontrollabile libido lo porta a ripensare e, come nel caso della pesca, a confondere quale sia il reale oggetto del suo desiderio. La meravigliosa scena in cui Elio piange tra le braccia di Oliver che tenta di addentare la pesca rappresenta tutta la confusione di Elio, è il sunto del suo percorso sessuale, ma soprattutto è il momento di definitiva accettazione ed interiorizzazione della sua omosessualità. In quello struggente e mai così necessario abbraccio finale Elio dichiara al suo amante di non volere che lui vada via, accettandolo definitivamente nella sua sfera più intima, e con lui anche tutto ciò che rappresenta. In quel momento, di estrema vulnerabilità, la sua voce si spezza, come travolta da una nuova e spaventosa consapevolezza. Confrontarsi con la propria interiorità fa male, è un percorso complesso e doloroso, e Luca Guadagnino è riuscito a trasportarlo all’esterno del personaggio utilizzando poche ed evasive linee di dialogo e solo tre inquadrature. Quella difficoltà di accettazione di sé che si abbatte violentemente su un giovane adolescente ancora troppo poco esperto delle “cose importanti” per avere coscienza della direzione che la sua vita sta prendendo è un dramma profondamente umano ed universale, che Guadagnino riesce a raccontare con semplicità, senza bisogno di spiegare niente o di calcare la mano. Un lavoro da maestro. Proprio per la sua complessità e l’eccellente lavoro di caratterizzazione del personaggio svolto da questa sequenza, ci sentiamo di dire che questa scena, subito successiva alla scena della pesca vera e propria, sia la più riuscita dell’anno.
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