Di Daniele Ambrosini
Alla sua uscita nelle librerie, a ridosso delle storiche elezioni del 2016, l’autobiografico Elegia Americana di J.D. Vance fu un enorme successo, il perché è abbastanza facile da intuire. L’opera di Vance, infatti, pur essendo un’odissea familiare con una forte connotazione emotiva e personale, coglie perfettamente la rabbia della classe media americana, dei sobborghi e di tutta una parte della popolazione lasciata ai margini dalla politica contemporanea. Una lettura politicamente ambigua soprattutto per il periodo storico, dove questa storia di redenzione a tutti i costi, è diventata emblematica della “rabbia bianca” americana e delle rivendicazioni di parte dell’elettorato trumpiano, quell’elettorato che ha mandato in pensione il termine “white trash” a favore del decisamente più altisonante “true americans”.
L’adattamento di Ron Howard firmato da Vanessa Taylor è un film che presenta le stesse caratteristiche, e che negli Stati Uniti non ha mancato di generare molte polemiche, dovute in parte alla semplice resa della pellicola, ed in parte alla componente concettuale alla base. E, in questo caso, nonostante il film nella sua classicità compositiva tenti di evitare un discorso politico, la sua impostazione formale non fa altro che far sorgere questioni sul reale messaggio che voglia veicolare. O meglio, la sua ambiguità sulla questione politica, rischia di rendere il film facilmente strumentalizzabile. Di esempi di storie di questo tipo, che, però, sono davvero in grado di confrontare le tematiche della periferia e di affrontare le sue connotazioni sociali o, al contrario, di riflettere in maniera efficace sui singoli personaggi e il loro privato, ce ne siano a bizzeffe, e non solo nel cinema americano, ma, in qualche modo, Elegia Americana, finisce per perdersi nella sua struttura episodica e datata.
Protagonista del film è J.D. Vance, studente di giurisprudenza a Yale che ha un colloquio per entrare a far parte di un importante studio legale nel momento in cui riceve una telefonata che lo informa che sua madre è ricoverata in ospedale per overdose. Questo è il gancio per un viaggio nella memoria del giovane J.D. del quale ripercorriamo l’infanzia tormentata in una piccola cittadina dell’Ohio, le difficoltà attraversate a causa della dipendenza dagli antidolorifici della madre sviluppata mentre lavorava come infermiera in un ospedale e il rapporto con la sboccata e spigolosa nonna.
Quella di J.D. è una parabola positiva, improntata al superamento delle difficoltà della vita attraverso la forza di volontà, è la più semplice e lineare delle interpretazioni del sogno americano. Una di quelle storie che dovrebbero essere d’ispirazione, ma la cui eccessiva retorica finisce per svilirne l’efficacia. Ma non solo, perché il film di Ron Howard sembra portare avanti una visione piuttosto semplicistica del successo, se non proprio dualistica: nella vita o si vince o si perde. E questo è sempre colpa o merito dei soggetti. Un discorso che rischia di alimentare parte di quelle dannose ideologie di cui prima.
Elegia Americana è un film datato sotto molti punti di vista, non solo per la sua visione estremamente semplicistica delle dinamiche sociali e per la retorica con cui queste sono affrontate, ma anche per questioni più puramente cinematografiche. La messa in scena è molto semplice ed intuitiva, e Howard non si prende mai un rischio, rendendo l’intera opera piuttosto piatta. Tutto è sempre estremamente lineare, e ad essere privilegiata è la comprensibilità dell’opera, della singola sequenza, dei collegamenti di montaggio, piuttosto che quello che dovrebbe effettivamente comunicare attraverso di esse. Un vero peccato. Elegia Americana, a volerla dire in parole semplici, è un film generico con poca, pochissima personalità, che, per di più, è difficile salvare per questioni extra-cinematografiche.
Amy Adams e Glenn Close fanno del loro meglio per tenere a galla la baracca, riuscendo a sostenere un paio di sequenze genuinamente molto interessanti a livello attoriale, nonostante la messa in scena sia sempre quel che è, ma poco possono quando le loro interpretazioni non sono sostenute da nient’altro. La sceneggiatura di Vanessa Taylor è ricca di scene madre, che sembrano lottare per il titolo di clip che verrà mostrata agli Oscar quando verrà annunciata la candidatura delle due attrici, scene potenti sulla carta, che alle volte colpiscono nel segno, ma altre risultano solo pesantemente artificiose, macchinate per dare momenti di maggiore pathos a personaggi che, forse, non ne avevano poi così tanto bisogno. Amy Adams, in particolare, ha più di qualche momento in cui la sua performance viene spinta verso eccessi non necessariamente coerenti con lo sviluppo del personaggio, che risultano essere solamente questo, eccessi, che pesano un po’ su una performance tutto sommato buona. Glenn Close ne esce meglio, per la natura più empatica del suo personaggio, e un maggiore controllo, ma pure lei corre il rischio di finire in territorio macchiettistico qui e lì, e parte della colpa è delle indicazioni di regia che spingono la performance in una direzione ben specifica, parte di quel trucco pesante e, ancora una volta, eccessivo.
Elegia Americana tenta di evitare il sottotesto politico dell’opera, ma nel non affrontarlo di petto finisce per appiattire tutto in maniera eccessiva, fino a creare un’ambiguità strana e pericolosa, che rischia di donare ulteriori connotazioni politiche al film stesso. Sotto questo punto di vista è interessante, ma sostanzialmente negativo il totale appiattimento della diversità e della questione etnica e delle minoranze, nel film presenti ma sempre costantemente non connotate, e perciò non riconosciute, non considerate, tenute in secondo piano. Si tratta di un discorso che nel migliore dei casi sarebbe stato un’appendice, ma che forse avrebbe meritato spazio all’interno di un film simile, al quale manca una vera e propria coscienza sociale, così come una conoscenza fenomenologica adeguata delle questioni sistemiche alla base della sua narrazione. Più che un’elegia, l’ultimo Howard è un’ode a un mondo che ormai non esiste più, e che forse non è mai esistito, ma è intrinsecamente legato ad una maniera di fare cinema molto classica, ma sostanzialmente blanda, completamente devota alla sua narrazione, ma cieca nei confronti del mondo e dei suoi fenomeni sociali, figuriamoci delle sue reali motivazioni.
Il difetto più grande di Elegia Americana, non è tanto il sembrare datato, il suo percorso lineare e poco intrigante, la sua struttura a flashback poco riuscita nella quale il presente non riesce mai a catturare l’attenzione dello spettatore, né tantomeno la sua propensione all’emotività facile, alla ricerca costante della commozione attraverso scene potenti e strillate (quelle che funzionano meglio e che colpiscono più nel segno, infatti, sono sicuramente quelle più modeste, più sottovoce), il più grande difetto del film è sicuramente la sua mancanza di prospettiva, che lo rende un oggetto assolutamente inadatto ad ergersi come esempio di narrazione universale, come invece tenta costantemente di porsi.
VOTO: 5/10