Di Edoardo Intonti, Daniele Ambrosini
Dopo un’attesa leggermente prolungata rispetto agli scorsi anni è finalmente arrivata la quinta stagione di House of Cards. Le aspettative dopo quattro stagioni ottime erano molto alte, il cambio di showrunner non ha giovato alla serie che si reinventa e realizza una stagione diversa dalle precedenti ma che resta una voce interessante sulle vicende della Casa Bianca.
Il commento di Edoardo
Attesa come non mai dopo le non-così-recenti elezioni, La quinta stagione di House of Cards delude. Delude con moderazione, ma su così tanti fronti che se non fosse la serie capolavoro che nei quattro anni precedenti ci aveva animato tanto, si potrebbe quasi pensare di abbandonarla.
Il cambio di showrunner, non più l’acclamato Beau Willimon ma il duo Melissa James Gibson e Frank Pugliese, si nota. Già l’anno scorso avevamo visto un’improvvisa svolta narrativa che vedeva la ricomparsa di alcuni personaggi centrali delle stagioni precedenti (Trusk, Lucas, ecc) non rinunciando ad introdurre new entry più o meno riuscite. Quest’anno invece, la stagione sembra concentrarsi in modo quasi eccessivo sui nodi venuti al pettine nel corso della salita al potere degli Underwood, riesumando personaggi e scenari chiusi da tempo o che forse meritavano di essere riesumati con maggiore clamore (la disfatta del precedente presidente Walker, la ricerca del corpo di Rachel). Claustrofobicamente sintonizzata sugli interni della casa bianca (stanza ovale e appartamento personale degli Underwood in primis), la serie non ci regala nessun respiro sul mondo esterno, elemento che i vari personaggi secondari si erano palleggiati negli anni, tra Doug (durante la riabilitazione), Freddy e il suo ristorante di costolette, e i vari personaggi satelliti che bilanciavano la linea narrativa “oscura” degli Underwood .
Al di là della fase finale delle elezioni, protratte eccessivamente per quasi metà stagione, con il suo risultato solo di indebolire ,dal punto di vista narrativo, la figura del candidato repubblicano che la scorsa stagione ci aveva fatto quasi temere la sconfitta di Francis &co, nella serie non c’è catarsi.
Osserviamo con inerzia, cercando un obbiettivo, una svolta (Chi è la talpa? Riusciranno a catturare il terrorista? Come rimarranno al potere?) che però non incolla mai veramente davanti allo schermo; non come negli anni scorsi quantomeno, dove la posta in gioco era forse minore, ma lo sforzo machiavellico decisamente più apprezzabile. Anche l’attesa rivalsa del prode Hammerschmidt, che ci pareva così vicino alla soluzione del mistero degli Underwood l’anno scorso, viene diluita fin troppo.
Il personaggio di Patricia Clarkson salva la situazione in estremis, bilanciando un ruolo politicamente forte e interessante, con un personaggio gradevolmente nevrotico e sopra le righe, sottolineando l’importanza di bilanciare il ritratto personale dei personaggi oltre che quello politico.
Ricordate Frank e Claire e i battibecchi per il vogatore? La figura barbina in televisione di Frank, la passione per i videogiochi o il birra-pong con Kathy Durent? Tutti elementi necessari, ma spariti dalla narrazione tranne che per qualche parentesi vagamente romantica se non altamente improbabile.
Finale ottimo, che presuppone una sesta stagione rinforzata (visto anche il consistente numero di membri del cast da sostituire) e che si spera possa regalarci altri momenti di grande televisione ai quali House of Cards ci ha abituati.
Il cambio di showrunner, non più l’acclamato Beau Willimon ma il duo Melissa James Gibson e Frank Pugliese, si nota. Già l’anno scorso avevamo visto un’improvvisa svolta narrativa che vedeva la ricomparsa di alcuni personaggi centrali delle stagioni precedenti (Trusk, Lucas, ecc) non rinunciando ad introdurre new entry più o meno riuscite. Quest’anno invece, la stagione sembra concentrarsi in modo quasi eccessivo sui nodi venuti al pettine nel corso della salita al potere degli Underwood, riesumando personaggi e scenari chiusi da tempo o che forse meritavano di essere riesumati con maggiore clamore (la disfatta del precedente presidente Walker, la ricerca del corpo di Rachel). Claustrofobicamente sintonizzata sugli interni della casa bianca (stanza ovale e appartamento personale degli Underwood in primis), la serie non ci regala nessun respiro sul mondo esterno, elemento che i vari personaggi secondari si erano palleggiati negli anni, tra Doug (durante la riabilitazione), Freddy e il suo ristorante di costolette, e i vari personaggi satelliti che bilanciavano la linea narrativa “oscura” degli Underwood .
Al di là della fase finale delle elezioni, protratte eccessivamente per quasi metà stagione, con il suo risultato solo di indebolire ,dal punto di vista narrativo, la figura del candidato repubblicano che la scorsa stagione ci aveva fatto quasi temere la sconfitta di Francis &co, nella serie non c’è catarsi.
Osserviamo con inerzia, cercando un obbiettivo, una svolta (Chi è la talpa? Riusciranno a catturare il terrorista? Come rimarranno al potere?) che però non incolla mai veramente davanti allo schermo; non come negli anni scorsi quantomeno, dove la posta in gioco era forse minore, ma lo sforzo machiavellico decisamente più apprezzabile. Anche l’attesa rivalsa del prode Hammerschmidt, che ci pareva così vicino alla soluzione del mistero degli Underwood l’anno scorso, viene diluita fin troppo.
Il personaggio di Patricia Clarkson salva la situazione in estremis, bilanciando un ruolo politicamente forte e interessante, con un personaggio gradevolmente nevrotico e sopra le righe, sottolineando l’importanza di bilanciare il ritratto personale dei personaggi oltre che quello politico.
Ricordate Frank e Claire e i battibecchi per il vogatore? La figura barbina in televisione di Frank, la passione per i videogiochi o il birra-pong con Kathy Durent? Tutti elementi necessari, ma spariti dalla narrazione tranne che per qualche parentesi vagamente romantica se non altamente improbabile.
Finale ottimo, che presuppone una sesta stagione rinforzata (visto anche il consistente numero di membri del cast da sostituire) e che si spera possa regalarci altri momenti di grande televisione ai quali House of Cards ci ha abituati.
Il commento di Daniele
Non c’è bisogno di nasconderlo, lo si nota dal primo disastroso episodio che House of Cards ha perso il tocco magico del suo autore, il candidato all’Oscar Beau Willimon, che ha deciso di abbandonare la serie dopo quattro stagioni al timone. Al suo posto, come detto in precedenza, Melissa James Gibson e Frank Pugliese, nella writing room della serie Netflix fin dalla terza stagione, affiancati da un team di sceneggiatori vecchi e nuovi che tenta di tirare le fila di quanto iniziato da Willimon. Va detto che a livello narrativo il primo episodio è l’unico realmente deludente infatti l’intricata vicenda politica ci mette poco ad ingranare e si mantiene costante su livelli medio-alti per tutta la stagione. Appare evidente, soprattutto alla luce del finale, che ci sia una certa continuità narrativa con le precedenti stagioni e che forse Willimon abbia contribuito a disegnare il destino della sua serie fin dall’inizio perché un risvolto finale simile non può che essere frutto di un’attenta pianificazione. Guardare alla composizione della writing room della stagione è interessante in vista di un’analisi di come questa sia andata discostandosi dalle precedenti fin dalla scrittura, divenuta sempre più tagliente, più fredda e calcolatoria ma a tratti estremamente meccanica, infatti se a funzionare molto bene è la parte più prettamente politica, sul versante delle storie personali dei propri protagonisti questa quinta stagione fallisce. Anche la regia e la fotografia scendono di livello ed appiattiscono molto il risultato finale, ed è un gran peccato visto che pur essendo partita da un episodio diretto da David Fincher la serie non aveva mai avuto bisogno di scimmiottare il suo stile asciutto e lineare, almeno fino a questo momento. Tanti piccoli fallimenti che però, e questo va detto e ribadito con forza, non costituiscono una vera e propria delusione perché House of Cards 5 non è affatto un prodotto di bassa qualità, semplicemente non è come le altre quattro stagioni, che forse ci avevano abituato troppo bene.
La storia riprende dove si era interrotta lo scorso anno, ad un passo dalle elezioni presidenziali con gli Underwood schierati contro il governatore Conway, questa sarà la linea narrativa centrale della prima metà della stagione che nella seconda parte si concentrerà invece sul “dopo”, sulle conseguenze di quelle elezioni, sui delicati equilibri di potere che vengono a crearsi. L’iter politico e la strategia dietro alle elezioni è molto interessante, per chi ha visto e apprezzato la strepitosa quarta stagione di Veep potrà sembrare un déjà vu, ma House of Cards ci prova con tutte le forze ad uscirne in modo originale da queste rocambolesche elezioni ed alla fine tra una trovata credibile ed una un po’ meno ce la fa. A sorreggere il tutto due sempre straordinari Kevin Spacey e Robin Wright, soprattutto quest’ultima catalizza più volte l’attenzione dello spettatore, è interessante a questo proposito notare il percorso fatto dal suo personaggio: nelle prime stagioni quasi spalla del marito, si è man mano fatta valere sempre di più fino a diventare realmente protagonista, la quarta stagione in questo senso è stata indicativa grazie ad una storyline centrata sul suo passato e a quel finale che per la prima volta l’aveva portata a sfondare la quarta parete e a rivolgere il suo sguardo al pubblico, accanto al marito che invocava il terrore. Questa quinta stagione è la più Claire-centrica della serie, al momento,e non è difficile immaginare che questa parabola ascendente possa continuare anche nella prossima stagione, che potrebbe tranquillamente essere l’ultima per i coniugi Underwood.
Per il resto c’è da dire che sono poche le new entry che riescono a catturare ad essere realmente incisive – la candidata all’Oscar Patricia Clarkson su tutti, mentre i personaggi di Campbell Scott (Mark Usher) e Malcolm Madera (Eric) si pongono come surrogati dello stesso Frank e di Meechum – ma allo stesso tempo molti dei personaggi storici della serie hanno delle storyline interessanti, ad esempio Doug e Tom Hammerschmidt, le cui indagini non accennano a fermarsi ed anzi scavano sempre più a fondo nel passato degli Underwood.
In conclusione siamo lontani dai fasti delle prime stagioni, ma House of Cards resta comunque una serie valida, sorretta da ottime interpretazioni e da una scrittura funzionale ad un intrattenimento di buon livello sebbene meno sfaccettata e minuziosa di quella a cui ci aveva abituati il creatore della serie, Beau Willimon. C’è una scena in uno degli ultimi episodi in cui Frank brucia con una sigaretta una stella della bandiera americana, tornano subito alla memoria scene altamente simboliche come Frank che sputa su un crocifisso o che fa pipì sulla tomba del padre, scene che avevano una forza espressiva incredibile ma che la nuova direzione tenta di imitare blandamente, ma in fin dei conti poco importa che non riescano queste “finezze”, che le immagini stesse abbiano perso una certa forza espressiva, quando mai come in questa annata l’espediente del comunicare direttamente con lo spettatore è stato tanto efficace (neanche nella prima stagione!) e, soprattutto, quando si ha un finale così compiuto e soddisfacente. Sicuramente è qualcosa di diverso dal “vecchio” House of Cards, è una stagione che crea uno stacco con quanto fatto in precedenza e quanto verrà in futuro, ma funziona ancora piuttosto bene tutto sommato.
La storia riprende dove si era interrotta lo scorso anno, ad un passo dalle elezioni presidenziali con gli Underwood schierati contro il governatore Conway, questa sarà la linea narrativa centrale della prima metà della stagione che nella seconda parte si concentrerà invece sul “dopo”, sulle conseguenze di quelle elezioni, sui delicati equilibri di potere che vengono a crearsi. L’iter politico e la strategia dietro alle elezioni è molto interessante, per chi ha visto e apprezzato la strepitosa quarta stagione di Veep potrà sembrare un déjà vu, ma House of Cards ci prova con tutte le forze ad uscirne in modo originale da queste rocambolesche elezioni ed alla fine tra una trovata credibile ed una un po’ meno ce la fa. A sorreggere il tutto due sempre straordinari Kevin Spacey e Robin Wright, soprattutto quest’ultima catalizza più volte l’attenzione dello spettatore, è interessante a questo proposito notare il percorso fatto dal suo personaggio: nelle prime stagioni quasi spalla del marito, si è man mano fatta valere sempre di più fino a diventare realmente protagonista, la quarta stagione in questo senso è stata indicativa grazie ad una storyline centrata sul suo passato e a quel finale che per la prima volta l’aveva portata a sfondare la quarta parete e a rivolgere il suo sguardo al pubblico, accanto al marito che invocava il terrore. Questa quinta stagione è la più Claire-centrica della serie, al momento,e non è difficile immaginare che questa parabola ascendente possa continuare anche nella prossima stagione, che potrebbe tranquillamente essere l’ultima per i coniugi Underwood.
Per il resto c’è da dire che sono poche le new entry che riescono a catturare ad essere realmente incisive – la candidata all’Oscar Patricia Clarkson su tutti, mentre i personaggi di Campbell Scott (Mark Usher) e Malcolm Madera (Eric) si pongono come surrogati dello stesso Frank e di Meechum – ma allo stesso tempo molti dei personaggi storici della serie hanno delle storyline interessanti, ad esempio Doug e Tom Hammerschmidt, le cui indagini non accennano a fermarsi ed anzi scavano sempre più a fondo nel passato degli Underwood.
In conclusione siamo lontani dai fasti delle prime stagioni, ma House of Cards resta comunque una serie valida, sorretta da ottime interpretazioni e da una scrittura funzionale ad un intrattenimento di buon livello sebbene meno sfaccettata e minuziosa di quella a cui ci aveva abituati il creatore della serie, Beau Willimon. C’è una scena in uno degli ultimi episodi in cui Frank brucia con una sigaretta una stella della bandiera americana, tornano subito alla memoria scene altamente simboliche come Frank che sputa su un crocifisso o che fa pipì sulla tomba del padre, scene che avevano una forza espressiva incredibile ma che la nuova direzione tenta di imitare blandamente, ma in fin dei conti poco importa che non riescano queste “finezze”, che le immagini stesse abbiano perso una certa forza espressiva, quando mai come in questa annata l’espediente del comunicare direttamente con lo spettatore è stato tanto efficace (neanche nella prima stagione!) e, soprattutto, quando si ha un finale così compiuto e soddisfacente. Sicuramente è qualcosa di diverso dal “vecchio” House of Cards, è una stagione che crea uno stacco con quanto fatto in precedenza e quanto verrà in futuro, ma funziona ancora piuttosto bene tutto sommato.
VOTO: 7,5/10