La classifica delle migliori serie televisive del 2017

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Di Gabriele La Spina, Edoardo Intonti, Daniele Ambrosini

Volge al termine uno degli anni più brillanti del panorama televisivo, nonché cinematografico, dove più che in precedenza la produzione è stata estremamente florida e ricca di contenuti più disparati e differenti tra loro. È stato l’anno delle donne, con il trionfo tra pubblico e critica di eccellenti serie tutte al femminile, ma anche di scommesse vinte e di esperimenti riusciti.

Innegabile che Netflix, smentendo i più fervidi detrattori, a rappresentato la più grossa fetta delle produzione televisiva del 2017, tra alti e bassi, molteplici delle sue serie sono stati dei centri in piena regola, restando spazio per le immancabili HBO, FX e finalmente Hulu, che è uscita trionfante agli ultimi Emmy, grazie alla sua serie distopica. È stato però anche l’anno degli interpreti, maggiormente femminili, presi in prestito da Hollywood, periodo delle incredibili performance televisive: ci hanno impressionato le interpretazioni di attrici come Jessica Lange, Elisabeth Moss, Reese Witherspoon e Nicole Kidman; citandone giusto alcune.
Sconfinando dal gusto personale a quello più oggettivo, ecco in classifica quali sono stati i momenti più interessanti della televisione in quest’anno quasi giunto al termine, con la certezza che la golden age televisiva sia destinata ancora a grandi cose, e nonostante chi la pensa differentemente, è una frontiera positiva per i talenti creativi, una seconda opzione e uno spazio di libertà meno influenzato rispetto a quello cinematografico dove, escluso il settore indie, grandi strumenti non sono nelle mani di tutti: nella televisione oggi non è così.

Tom Hardy in una scena di “Taboo”.

15. Big Mouth (Stagione 1)
L’irriverente serie animata sulla pubertà targata Netflix è sicuramente una delle novità più apprezzate del 2017. La sua spiccata verve comica combinata a temi delicati e controversi persino per la tv moderna, fanno di Big Mouth una serie unica. Personaggi sboccati e situazioni autentiche e sincere fanno della serie un gioiellino dell’animazione in cui tutti possono ritrovarsi e farsi una risata, non senza una buona dose di autoironia, nostalgia e, perché no, un pizzico di sano imbarazzo. In Big Mouth la pubertà diverta letteralmente un mostro con il quale bisogna imparare a convivere ed il risultato di questa convivenza forzata è esilarante e pienamente convincente, non solo per l’attenzione data alla rielaborazione di temi legati all’infanzia e all’adolescenza, ma anche e soprattutto per l’onestà con cui questi vengono trattati. E se c’è una cosa per cui bisogna ringraziare la serie Netflix è per averci ricordato che è lecito fare ironia su tutto, pure su tematiche più scomode, e l’animazione in questo senso offre potenzialità infinite. 
14. Taboo (Stagione 1)
Tom Hardy sul piccolo schermo è un evento immancabile: improvvisamente orfani della serie Penny Dreadful, il pubblico necessitava di una nuova favola gotica a cui appassionarsi, e il genio di Steven Knight (autore di Peaky Blinders e Locke) e del padre dello stesso Hardy, arriva giusto in tempo. James Delaney è un londinese erede di una famiglia di commercianti, dato per morto anni prima, poi riapparso proprio al momento dell’apertura del testamento del compianto capo famiglia. La sorellastra (Oona Chaplin) e il consorte non sono però gli unici a vedere di cattivo occhio il ritorno del figliol prodigo, cresciuto in Africa tra selvaggi e pratiche pagane sciamaniche. Un dramma oscuro ed esoterico che unisce un Cast brillante ad una buona scrittura. Non è diventato la serie evento dell’anno, ma come altri progetti (Game of Thrones, American Horror Story) ebbero bisogno di una seconda stagione per diventare dei punti di riferimento televisivi, non è detto che Taboo non rivendichi il suo titolo con la sua prossima seconda stagione. 
13. Bojack Horseman (Stagione 4)
Probabilmente la serie animata più riuscita di Netflix, che negli ultimi quattro anni è riuscita per tematiche e racconti ad eguagliare serie rodate come South Park. Tuttavia la quarta stagione della serie creata Raphael Bob-Waksberg, non eguaglia pienamente i livelli delle due precedenti, ma vale indubbiamente la visione per la sotto-trama dedicata all’approfondimento del rapporto tra il protagonista, il cavallo Bojack, e la madre Beatrice. In particolare l’episodio 11, intitolato “Il tempo è una freccia”, rappresenta il punto più alto della stagione dove esploriamo i ricordi della madre affetta da Alzheimer, con frangenti di unica malinconia, a cui Bojack Horseman ci ha da tempo abituati esponendo ipocrisie e paradossi della realtà di Hollywood, fatta di eccessi e profonde ingiustizie. E nonostante alcune ridondanze e trovate meno brillanti che in passato, la serie va riconosciuta per l’unicità del personaggio di Bojack nel suo sviluppo ben delineato e graduale.

Una scena da “American Gods”.

12. Atypical (Stagione 1)
Per chi quasi dieci anni fa ebbe la possibilità di apprezzare il capolavoro United States of Tara, saprà apprezzare le tinte di questa dramedy inedita di Netflix incentrata attorno a Sam, un ragazzo autistico, la cui patologia ha inevitabilmente modificato le dinamiche relazionali all’interno della propria famiglia. Il tema della patologia non viene trattato con patetismi: il personaggio interpretato da Keir Gilchirst (già presente in United States of Tara) non è una vittima o un caso da compatire e la sua condizione è solo uno spunto per sviluppare le sotto-trame di padre, madre e sorella, la cui vita è stata inevitabilmente cambiata dalla situazione di Sam. La creatrice, Robia Rashid, già attiva come produttrice e scrittrice per alcuni prodotti televisivi comici di successo (How I Met Your Mother, The Golbergs) è promossa a pieni voti come creatrice di un format originale, che, anche alla presenza dei veterani Jennifer Jason Leigh e Michael Rapaport, offre a Netflix un prodotto piacevole e non impegnativo nonostante la tematica di base.
11. American Gods (Stagione 1)
Basato sul romanzo omonimo di Neil Gaiman, il progetto era potenzialmente disastroso, ma incredibilmente è riuscito a renderlo il suo prodotto migliore dai tempi di Spartacus, nonostante un’assenza quasi totale di nomination ai grandi premi. La serie unisce sapientemente personificazioni di alcuni frammenti di cultura religiosa risalente al periodo pre-cristianesimo: divinità vichinghe, egizie e dell’antica Grecia; insieme a quelle che potrebbero essere considerate le nuove divinità moderne: la tecnologia, la globalizzazione, ecc. Tra le quali ovviamente c’è una guerra in corso. Scritta e diretta eccellentemente, è uno di quei progetti con alle spalle un investimento più che notevole e sufficientemente sperimentale da reggere le altrimenti ridicole situazioni cui si spinge. Il cast conta new entry poco conosciute, in primis i protagonisti Ricky Whittle e Emily Browning. e alcune delle personalità più interessanti, ma lentamente cadute nel dimenticatoio del mondo hollywoodiano come ad esempio Ian McShane, Gillian Anderson, Peter Stormare e Kirsten Chenoweth.
10. Rick and Morty (Stagione 3)
Nel tempo che è trascorso tra l’uscita della seconda e della terza stagione di Rick e Morty, il successo della serie è cresciuto esponenzialmente, portandola quasi allo status di cult. È indubbio che la serie di Dan Harmon e Justin Roiland sia tra i prodotti animati più trasgressivi ed irriverenti in circolazione, oltre ad essere uno dei più intricati e complessi. La terza stagione torna a giocare la fantascienza ed i cliché legati al genere, regalando agli spettatori nuovi favolosi viaggi interdimensionali, creature aliene e stranezze pseudoscientifiche di ogni tipo. Rick e Morty riesce a combinare intrattenimento di altissimo livello a tematiche di grande spessore, senza mai prendersi troppo sul serio, prestando fede alla sua natura episodica (quasi sempre) autoconclusiva e alle sue storie squisitamente fini a sé stesse. Questa terza annata ha decisamente soddisfatto le aspettative ed ha, in numerosi frangenti, alzato l’asticella della qualità a livelli decisamente alti, è un peccato che ci sia da aspettare ancora molto per una nuova stagione.
9. Ozark (Stagione 1)
La cupissima serie tra dramma e crime di Bill Dubuque e Mark Williams, è sicuramente una delle migliori dell’anno passate inosservate su Netflix. Capeggiata dall’altrettanto sottovalutato Jason Bateman, attore forse più conosciuto per alcune commedie di classico stampo americano, che per le sue prove attoriali in campo drammatico e registico. Di Ozark è infatti anche regista per alcuni episodi, nonché eccellente interprete, patriarca di una famiglia in pezzi, perseguitata da un cartello della droga messicano e costretta alle più indicibili delle azioni per poter salvare la propria vita, tra riciclaggio di denaro, omicidi e menzogne. Affiancato dalla brillante Laura Linney, già eccelsa sul piccolo schermo per il suo ruolo da protagonista in The Big C, Bateman ritrae un personaggio imperfetto, in parte cattivo, tanto simile al suo ruolo in The Gift di Joel Edgerton. Una grande mancanza non solo tra i maggiori premi dell’anno, ma anche tra le visioni dell’utenza di Netflix.
8. Master of None (Stagione 2)
La seconda stagione della premiata serie di Aziz Ansari è riuscita a replicare gli ottimi risultati conseguiti dalla precedente e ad aggiungere spunti sempre nuovi ed interessanti al discorso unitario portato avanti dall’amato comico indiano. Master of None riesce a bilanciare splendidamente narrazione orizzontale e verticale, facendo sì che ogni episodio approfondisca temi e storie nuove, che donano alla serie un respiro più ampio e variegato e che offrono numerose occasioni di analisi e sviluppo dei personaggi che popolano la serie sullo sfondo di una New York quasi Alleniana. La seconda stagione di Master of None è una bellissima riflessione sul tempo e sull’amore affrontata con un velato senso di nostalgia, con una sanissima dose di ironia e soprattutto con tanta umanità, quell’umanità che rende i personaggi reali, quasi tangibili e perfettamente credibili e, di conseguenza, la storia davvero coinvolgente.

I protagonisti di “American Vandal” in una scena dalla serie.

7. The Handmaid’s Tale (Stagione 1)
In un anno in cui le donne hanno trovato grande spazio e, soprattutto, storie di altissima qualità in ambito televisivo, è impossibile non citare The Handmaid’s Tale, infatti la serie di Hulu non solo è riuscita a vincere 8 Emmy, ma si è imposta come una delle serie più chiacchierate ed apprezzate dell’anno. Trainata da una sempre bravissima Elisabeth Moss, The Handmaid’s Tale prende piede in un futuro utopico dove il ruolo della donna viene ridimensionato in base alla sua fertilità, dove l’ordine prestabilito viene sovvertito secondo leggi arbitrarie create da un’umanità ormai svuotata di ogni compassione e soggetta solo ad artificiosi meccanismi di potere. La serie è un racconto di redenzione che suona come un grido di liberazione, è un progetto coraggioso che mette al centro le donne e che restituisce loro l’identità negata attraverso una storia dal pathos dirompente che non risulta mai banale ed è in grado di prendersi numerosi rischi. Si tratta sicuramente di una delle novità più gradite dell’anno televisivo appena trascorso. 
6. American Vandal (Stagione 1)
Uno degli esperimenti più riusciti, divertenti e impredicibili di Netflix, è la serie di Dan Perrault e Tony Yacenda, un finto documentario, school series mascherata da serie crime. In American Vandal uno studente problematico viene accusato di aver vandalizzato le auto dei professori con 27 disegni di peni; sarà la crociata di due compagni di scuola venire a capo della verità con una serie di interviste e indagini che pian piano ricostruiranno il caso, svelando retroscena e verità di un ambiente, quello della scuola americana, che fino ad oggi non era stato raccontato in questo modo. Con il tipico comparto dei programmi più beceri di network come Real Time, la più satirica delle serie Netflix mescola l’ironia all’esposizione di un sistema discutibile, dove gli studenti rischiano ogni giorno di essere etichettati, in una micro-società tanto meschina quanto quella del “mondo reale”. I rapporti interpersonali tra i protagonisti fanno da cornice al racconto dello “scherzo” nell’era dei social, dei fenomeni virali e della forte paranoia di chi si trova ai vertici, tra ipocrisie e un finale fortemente malinconico.

Jessica Lange in “Feud: Bette and Joan”.

5. Top of the Lake: China Girl (Stagione 2)
Assente dal grande schermo forse da fin troppo tempo, Jane Campion è tornata quest’anno per un secondo appuntamento della premiata serie che ha creato insieme a Gerald Lee, e dove qui condivide la regia con Ariel Kleiman. In China Girl vediamo il seguito delle vicende dell’agente Griffin, interpretata da un incredibile Elisabeth Moss, ma dalla cittadina sul lago della Nuova Zelanda, si aumenta il tiro, e stavolta l’agente ha a che fare con l’omicidio di una ragazza cinese, prostituta immigrata illegalmente e incinta. È così che Top of the Lake si trasforma in un’altra voce di una sub-realtà del continente australiano, ne racconta il smodato giro di prostituzione ma anche l’intangibile mercato nero della maternità surrogata. La serie della Campion fa della donna il suo epicentro: la madre, quella adottiva e quella naturale, e la figlia; raccontata in diverse età, sfumature e profili. Con un’atmosfera spaziante dal thriller all’ironico, rimandando a Twin Peaks, fino al puro dramma, China Girl riesce a disturbare, commuovere e conquistare lo spettatore, tra inebrianti sequenze dal forte carattere simbolico e linee di dialoghi fortemente incisive.
4. Feud: Bette and Joan (Stagione 1)
Murphy vince anche quando perde. Nonostante lo snub quasi vergognoso agli Emmy, Feud è stata una delle serie con più nomination nel 2017, indice inequivocabile dell’alta qualità del prodotto. La nuova installazione televisiva del genio creatore di American Crime Story e Glee, si concentra sulla faida, da molti dimenticata, tra le due dive Joan Crawford e Bette Davis, che raggiunse l’apice durante le riprese del film “Che fine ha fatto Baby Jane?”. Camp a livelli inverosimili, la serie realizza un quadro completo e realistico dell’industria cinematografica degli anni ’60 e del mondo hollywoodiano, fatto di grandi produttori, registi incompresi e giornalisti vendicativi. Murphy sceglie un cast di tutto rispetto, capeggiato dalla suprema Jessica Lange e l’eccelsa Susan Sarandon, in quellaoche forse è il progetto meglio riuscito di Murphy dopo Il caso O.J. Simpson.
3. Mr. Robot (Stagione 3)
Nonostante la perdita di ascolti e di consensi alla quale è andata incontro la seconda stagione della serie di USA Network sugli hacker, la qualità complessiva dell’opera messa su da Sam Esmail è rimasta sempre piuttosto alta. Tutti i dubbi sollevati dalla seconda stagione, la cui narrazione procedeva in modo non lineare, vengono dissolti da una terza stagione pressoché perfetta, dove tutti i nodi vengono al pettine e dove tutte le principali linee narrative trovano una adeguata conclusione e continuazione. Sam Esmail (showrunner, regista dell’intera stagione e sceneggiatore di 5 episodi) dimostra ancora una volta di essere un vero autore, che anno dopo anno è pronto a mettere in gioco idee nuove e a prendersi numerosi rischi tecnici e narrativi pur di donare al suo pubblico un’esperienza televisiva nuova e fuori dagli schemi. Riuscendo a combinare realtà e finzione in modo magistrale Mr. Robot diventa sempre più paurosamente parabola della società moderna, toccando picchi altissimi e confermandosi come un unicum nell’attuale panorama televisivo. 
2. Mindhunter (Stagione 1)
Ideata da Joe Penhall, Mindhunter sembrava il giusto salvagente per gli orfani di True Detective, una delle serie più amate di HBO naufragate dopo un’insoddisfacente seconda stagione, eppure si è rivelata non solo la miglior produzione di Netflix negli ultimi anni, ma una serie del tutto differente. Con Jonathan Groff nei panni di Holden, un negoziatore della FBI, che intraprende una sorta di studio del serial killer, termine prima della fine degli anni ’70 ancora inesistente, la serie ci regala dei ritratti iconici: dal protagonista puntiglioso, a tratti nevrotico, al più navigato agente Tench, dalla professoressa Wendy Carr, fino a quelli dei più disparati assassini, dove su tutti spicca Cameron Britton nelle vesti di Edmund Kemper; ritratti che mai scadono nella macchietta, passo falso compiuto da diverse altre serie in passato. La regia di David Fincher, a volte quasi ossessiva nello scavare nei particolari dell’immagine per i quattro episodi ricoperti, fomenta la continua tensione della serie, che deve maggiormente la sua riuscita all’equilibrio della sceneggiatura mai fuori dai bordi.

Le protagoniste di “Big Little Lies” in una scena dalla serie.

1. Big Little Lies (Stagione 1)
Interamente diretta da Jean-Marc Vallée, la serie di HBO è il fenomeno televisivo dell’anno, non solo per gli 8 Emmy conquistati. Un esercizio attoriale corale, con interpreti fuori classe come Nicole Kidman, Reese Witherspoon, Laura Dern, Shailene Woodley e Alexander Skarsgard, che offrono alcune delle migliori performance delle loro carriere, dove la scrittura pungente di David E. Kelly si fonde alla brillante e poetica regia di Vallée, tanto cinematografica, da rendere la miniserie una sofisticata soap-opera. Ma Big Little Lies non è solo questo: è una serie paradossalmente musicale, dove dal soul all’elettro-pop più sfrenato, le immagini e i suoni si miscelano alle interiorità dei personaggi, ognuno legato a un preciso brano; ed è una serie di denuncia, nei limiti hollywoodiani. Seguendo le vite di un gruppo di madri nella città di Monterey, siamo testimoni di una realtà ipocrita e forzata, quella americana, sempre più votata a una sorta di sterilizzazione della personalità. Queste madri elicottero, mogli perfette, irrealizzate, altre abusate; sono probabilmente i personaggi femminili meglio caratterizzati del piccolo schermo negli ultimi anni. Big Little Lies è la prova tangibile che il confine tra cinema e televisione è ad oggi quasi irrisorio.

Menzione speciale: Twin Peaks – La serie evento
Impossibile classificare l’arte visiva e narrativa di David Lynch, tornato quest’anno alla serialità televisiva con l’evento mondiale della tanto attesa terza stagione del suo capolavoro per il piccolo schermo “Twin Peaks”, co-scritto assieme a Mark Frost. Diciotto episodi lunghi quanto una pellicola-fiume, oltre la visione della tv odierna e diversa da qualunque cosa avete visto, state vedendo e vedrete sul tubo catodico per molto tempo. Più vicina alla sensibilità del Lynch astratto e metafisico della sua ultima filmografia (“Mulholland Drive” e “Inland Empire” su tutti), Twin Peaks – La serie evento è a tutti gli effetti il possibile addio ai riflettori del mondo del cinema e della televisione di uno dei più grandi geni dell’arte contemporanea statunitense; un’odissea all’interno degli enigmi più inquietanti dell’universo co-creato assieme a Mark Frost oltre la vita e la morte, oltre il tempo e la concezione tradizionale del presente, del passato e del futuro. “Chi ha ucciso Laura Palmer?” diventa tutt’a un tratto “Quando è stata uccisa Laura Palmer?”. Ancora una volta, venticinque anni dopo il film prequel “Fuoc cammina con me”, l’arte della serialità televisiva non sarà mai più la stessa, irrimediabilmente e senza scampo. (di Simone Fabriziani)

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