Le migliori performance cinematografiche del 2019 secondo Awards Today

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Di Redazione
Fine anno, tempo di (tanti) bilanci finali. Se la lista più attesa del 2019 è quella dedicata ai migliori titoli secondo l’opinione e le scelte oculate dei membri della nostra Redazione, vi deliziamo con le nostre variegate scelte sulle migliori performance del 2019.

Ci sentiamo di affermare che anche l’anno che sta per chiudersi è stato ricco di interpretazioni maschili e femminili sul grande schermo che hanno lasciato il segno. Queste sono le scelte insindacabili della Redazione, quelle che più ci hanno emozionato in questo straordinario viaggio all’interno di una buia sala cinematografica che è stato l’anno 2019.

Le scelte di Simone Fabriziani
Joaquin Phoenix – Joker

Il 2019 sul grande schermo non può prescindere dal personaggio cinematografico che lo ha segnato indelebilmente. Protagonista del film che ancora non cessa di far discutere sin dalla sua inaspettata vittoria alla 76° Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia dove ha trionfato con il Leone d’Oro, è Joaquin Phoenix, splendido Arthur Fleck nel Joker diretto da Todd Phillips. Era dal 2012 nell’impressionante The Master di Paul Thomas Anderson che l’istrionico e vulcanico interprete statunitense non tornava sul grande schermo con un ritratto attoriale totale, completo. Per vestire gli ingombranti panni delle origini del Joker, Joaquin Phoenix ha operato agghiacciante dimagrimento e ha donato ghigno e turbe mentali al più pericoloso villain della cultura pop recente. Ben oltre la maschera del fumetto americano, l’Arthur Fleck/Joker dipinto da Phoenix ha lasciato il segno perché ha saputo volare oltre le tavolozze troppo strette dei comics a cui si ispira in parte. Il Joker di Todd Phillips ha battuto il record di incasso mondiale per un film Rated – R e vietato ai minori di 14 anni, un’ulteriore riprova che il tono d’autore donato al film è stato capito, apprezzato e digerito da una fetta di pubblico vasta rigorosamente variegata che, riconoscendosi nel ghigno dolente ed indimenticabile dell’Arthur di Joaquin Phoenix, ne ha decretato un successo che verrà ricordato negli annali del cinema, nonostante un ingombrante passato.

Lupita Nyong’o – Noi

La (doppia) performance femminile del 2019 appartiene a Lupita Nyong’o in Noi, secondo lungometraggio scritto e diretto dal premio Oscar Jordan Peele che ha superato in incassi anche l’exploit del 2017 dell’ottimo Scappa – Get Out. Qui l’attrice premio Oscar veste i panni di Adelaide Wilson, mamma di una famiglia solo apparentemente perfetta, accerchiata in piena notte dall’invasione dei loro inquietanti doppi. Nel duplice ritratto fratturato dell’animo umano e del suo cuore di tenebra, Lupita Nyong’o dona umanità ad entrambe le controparti del suo personaggio. Nonostante il colpo di scena finale mischierà le carte in tavola una volta per tutte, Adelaide/Red è la testimonianza della straordinaria versatilità della Nyong’o: da brividi nei panni dell’istintuale Red, amorevole in quelli di Adelaide; un rovescio della medaglia che enfatizza sul (duplice) volto dell’attrice le tante simbologie che nasconde il film di Jordan Peele sulla società americana di oggi, sulla lotta di classe, sulla condizione della comunità afroamericana negli usa contemporanei. Se il cast di comprimari non sbaglia comunque una nota, Lupita Nyong’o ne è l’inquietante e agghiacciante punta di diamante che ci guarda fissamente e ci costringe a vedere il nostri riflesso allo specchio.

Joe Pesci – The Irishman

Se l’atteso gangster movie diretto dal premio Oscar ha avuto tra i suoi innumerevoli plausi quello di aver riunito tre mostri sacri del cinema italo-americano come Robert De Niro, Al Pacino e Joe Pesci, quest’ultimo, assente da anni dai riflettori di Hollywood, riesce a rubare la scena ai due altri volti dell’ultimo capolavoro firmato Netflix. Già candidato all’Oscar per Scorsese per titoli come Toro Scatenato e Quei Bravi Ragazzi (statuetta vinta come attore non protagonista) e volto indimenticabile di Casinò nel 1995, Joe Pesci esce temporaneamente dal ritiro dal grande schermo e regala un piccolo manuale di recitazione. nei panni dello spietato ma ieratico boss della mala Russell Bufalino, l’attore statunitense ruba la scena; non sono sufficienti il de-aging operato dalla computer grafica che danza tra passato e presente cronologico dei vari personaggi, Joe Pesci li oltrepassa con presenza scenica e professionalità ritrovata. Se in The Irishman De Niro è ilo braccio e Pacino la vittima, Pesci è la fredda e calcolatrice mano degli eventi che si dipanano nella pur lunga ed impegnativa durata del film diretto da Scorsese. Bentornato Joe, ci eri veramente mancato.

Antonio Banderas – Dolor y Gloria

Non poteva mancare nel nostro novero annuale la performance maschile non in lingua inglese che più ci ha sbalordito; stiamo parlando di Antonio Banderas in Dolor Y Gloria, uno dei lungometraggi più acclamati da pubblico e critica del maestro spagnolo Pedro Almodovar. Nel film presentato a Cannes, dal carattere fortemente autobiografico dal punto di vista dell’autore, Banderas si cala con impressionante dedizione nei panni del regista Salvador Mallo, un vero e proprio surrogato del cineasta iberico. In Dolor y Gloria, l’attore feticcio di Almodovar si cala con discrezione e sorprendente professionalità nella vita privata del regista che porta sul grande schermo e davanti la macchina da presa; una prestazione attoriale sincera, genuina e sofferta da parte del volto che in tanti lungometraggi hanno accompagnato la carriera dietro la cinepresa del regista spagnolo. Un testamento di profonda amicizia, quello tra Almodovar e Banderas, che traspira in ogni gestualità, parola o azione del ritratto dell’anima conflittuale del fittizio regista Salvador Mallo. Per questo ruolo, culmine di una collaborazione artistica durata decenni, Antonio Banderas ha ottenuto il premio a Cannes e l’EFA come miglior attore europeo, senza dimenticare la citazione della critica di New York, che lo ha incoronato interprete maschile del 2019. E anche noi.

Le scelte di Daniele Ambrosini

Noah Jupe – Honey Boy

Honey Boy è a tutti gli effetti il film di Shia LaBeouf, che fa un lavoro straordinario non solo nell’interpretare suo padre, ma anche nel rielaborare la sua infanzia difficile attraverso una sceneggiatura emotivamente carica e onesta, ma la vera arma segreta del film diretto da Alma Har’el è Noah Jupe. Il giovane e talentuosissimo attore inglese, classe 2005, che abbiamo già avuto modo di vedere ed apprezzare in film come Suburbicon, Wonder, A Quiet Place e Le Mans ’66 – La grande sfida, in Honey Boy ci regala una performance straordinaria, la migliore della sua carriera, nonché una delle migliori dell’anno.  Nel film Jupe interpreta Otis, una versione fittizia di LaBeouf all’età di tredici anni, un ragazzo prodigio cresciuto sui set con una situazione familiare quanto meno problematica. Tutto il film, infatti, ruota attorno alla relazione tra Otis e l’onnipresente e possessivo padre. Noah Jupe si mette a nudo in un vero e proprio tour de force emotivo che richiede un tale livello di vulnerabilità e di sincerità, che metterebbe a dura prova pure gli attori più navigati. Eppure lui lo fa sembrare facile. Alle volte basta solo il suo sguardo, ingenuo e cristallino, per cambiare la scena da così a così. Una performance che definire eccezionale sarebbe riduttivo, che ci conferma quanto prezioso e promettente sia Noah Jupe, uno degli interpreti più interessanti di Hollywood in questo momento. Criminalmente sottovalutato nel corso di questa stagione dei premi.

Zhao Shuzhen – The Farewell

In un film ricco di pathos e dalla forte carica drammatica, Zhao Shuzen è come un raggio di sole nell’oscurità. La sua Nei Nei è una donna solare, che con la sua simpatia, la sua ironia, la sua gentilezza dona al film un’insperata leggerezza. Zhao Shuzhen ci regala una delle performance più sorprendenti della stagione, donando corpo ad una nonna con la (pungente) battuta sempre pronta ma dalla dolcezza sconfinata che ha in sé tutte le migliori qualità di una nonna, e che proprio per questo non si può non amare. La sua non è una performance fatta di scene madre, di grandi dialoghi o di iconici momenti che saltano subito all’occhio e si imprimono nella memoria dello spettatore, no, è un’interpretazione fatta di piccole cose, di piccoli gesti, di quella familiarità che fa sì che risulti estremamente naturale e realistica, tanto che, alla fine, ci sembra di averla conosciuta davvero Nei Nei, anzi, ci sembra di conoscerla da una vita e di averle voluto bene da molto prima che il film iniziasse. Riuscire a creare un tale legame con il pubblico, lavorando con un personaggio all’apparenza ordinario, privo di forti manifestazioni emotive, non è affatto un lavoro semplice. E Zhao Shuzhen è incredibile proprio per questo, perché ci ricorda quanto l’ordinario possa essere straordinario.

Marta Nieto – Madre

Madre è stato la vera rivelazione della settantaseiesima edizione della Mostra del Cinema di Venezia e se il film di Rodrigo Sorogoyen funziona così bene è anche grazie alla sua straordinaria protagonista, Marta Nieto, giustamente premiata con il premio alla miglior attrice della sezione Orizzonti e recentemente anche candidata ai Goya. Nel film la Nieto interpreta Elena, una donna il cui figlio è scomparso nel corso di una gita in camper con il padre quando aveva solo sei anni; dopo quel traumatico evento Elena si è trasferita sulle coste francesi, nel luogo della sparizione del figlio. Passati dieci anni, conosce Jean, un sedicenne che le ricorda suo figlio, con il quale intraprende una relazione ambigua, destinata a stravolgere nuovamente la sua vita. Marta Nieto interpreta il dolore, il dramma incessante di questa donna costantemente sull’orlo di una crisi di nervi, legata indissolubilmente al suo essere madre, nonostante tutto. La sua è una performance mutevole, fatta di alti e di bassi, di calma e di quiete, una performance incredibilmente equilibrata e coerente nonostante le mille svolte, i cambi di registro e la frammentarietà imposti dal personaggio. È proprio grazie alla straordinaria e coraggiosissima prova d’attrice di Marta Nieto che Elena risulta un personaggio femminile tridimensionale, incredibilmente sfaccettato, vero come pochi altri.

Le scelte di Massimo Vozza

Florence Pugh – Midsommar – Il villaggio dei dannati

Una famiglia al tappeto, Midsommar e Piccole donne: il 2019 è decisamente stato l’anno della prevista ascesa dell’attrice britannica Florence Pugh, classe 1996. Dopo la straordinaria prova di recitazione in Lady Macbeth, la Pugh ha continuato a dimostrare la sua bravura, riscuotendo successo da parte di pubblico e critica, ricevendo (purtroppo solo in parte) attenzioni dal circuito premi, e rappresentando non solo un canone di bellezza abbastanza atipico in quel di Hollywood ma anche dei personaggi femminili decisamente potenti, totalmente al passo con i tempi. L’interpretazione di Dani nell’ultimo film di Ari Aster è decisamente una delle migliori  performance dell’anno: la giovane attrice è riuscita in Midsommar a farsi carico di un ruolo complesso e centrale, ricco di sfaccettature, con il quale, complice anche la regia, è stato davvero difficile non entrare in empatia durante la visione, perfino nelle scene più estreme e forti, dove era richiesto un approccio tutt’altro che dentro le righe. Florence Pugh ha quindi in questo film costantemente colto nel segno: minimale nel mascherare il dolore della perdita, poi improvvisamente straziante, con la voce e il corpo, nello sfogare la rabbia e la sofferenza; eterea nel danzare con le altre villeggianti nella competizione di danza, infine spietata e magnetica nei vesti della Regina di Maggio. E poi quello sguardo nella scena finale, talmente d’impatto da restare impresso nella mente anche a visione conclusa.

Adam Driver e Scarlett Johansson – Storia di un matrimonio

In un’annata dove si è spesso discusso su cosa sia degno di essere definito cinema e cosa no è curioso che le due migliori performance dell’anno in assoluto siano quelle di un attore e un’attrice protagonisti anche di due importanti media franchise di successo, soprattutto commerciale. Adam Driver e Scarlett Johansson, tolti i panni di Kylo Ren e Natasha Romanoff (che hanno comunque entrambi vestito anche quest’anno) e indossati quelli di Charlie e Nicole nel film Storia di un matrimonio, sono stati in grado di incarnare perfettamente gli imperfetti uomo e donna contemporanei con una veridicità sorprendente. Seppur sostenuti da una sceneggiatura eccezionale, i due interpreti hanno dovuto affrontare una prova davvero complicata: dover rappresentare la quotidianità, la normalità, con tutti i suoi cambi di tono, dando costantemente l’impressione di realismo e spontaneità e, per di più, attirando la nostra attenzione anche quando messi ai margini della scena, in silenzio, durante le diatribe tra avvocati. Entrambi sono riusciti a trascinare il pubblico in una spirale di sentimenti sinceri, emozionando fino alle lacrime così da togliere il velo che separa realtà e finzione cinematografica: perché ascoltare il racconto di Nicole riguardo al primo incontro con Charlie ci ha commossi insieme a lei, vederli e sentirli dar sfogo ad anni di frustrazioni inespresse ci ha tolto il fiato e tenuti in tensione proprio come accadeva a loro stessi, e ascoltare Charlie cantare Being Alive ci ha spezzato il cuore come spezzato era il suo. Le prove attoriali di Driver e della Johansson sono la dimostrazione che quando si parla di cinema non esistono divisioni, perché nel cinema c’è sempre la vita e alcune volte ci sono degli interpreti che non te la fanno solo osservare ma addirittura vivere.

Margot Robbie – C’era una volta…a Hollywood

Stanislavskij disse che non esistono piccole parti, ma solo piccoli attori. È una premessa importante da fare se si vuole parlare dell’interpretazione di Margot Robbie in C’era una volta a… Hollywood. Dopo la sua prova in I, Tonya, la giovane attrice australiana quest’anno sembra essere ritornata sotto i riflettori soprattutto con il personaggio di Kayla in Bombshell eppure, nonostante lo scarso screen time e le poche battute, è riuscita a restare impressa nel ruolo di Sharon Tate, grazie anche a Tarantino, diventando una vera e propria icona: nonostante sia impossibile non riconoscere DiCaprio e Pitt come i veri mattatori della pellicola, il personaggio femminile impersonato dalla Robbie è il cuore pulsante del film. L’attrice si è dovuta far carico di una valenza metaforica potentissima e non semplice da far emergere come potrebbe sembrare di primo acchito: grazie alla freschezza, alla bellezza e all’innocenza che ha donato al ritratto di questa piccola ma mai dimenticata star degli anni ‘60, Margot Robbie si è confermata una grande nel suo campo. L’innocenza e la dolcezza che esprime nel momento in cui si reca in sala a vedere The Wrecking Crew e la sua postura e il suo sguardo filtrato da quelle enormi lenti durante la visione convincono al cento per cento lo spettatore, tanto che finisce con il riconoscersi in lei, così piena di quella spensieratezza che ci accompagnava (e a volte fortunatamente ancora ci accompagna) ogni volta che ci recavamo al cinema e sedevamo davanti al grande schermo.

Le scelte di Giuseppe Fadda

Brad Pitt -Ad Astra

Con ogni probabilità, sarà la sua (ottima) performance in C’era una volta a… Hollywood a fruttare a Brad Pitt la sua quarta candidatura all’Oscar per la recitazione. Ma la sua calma, introspettiva interpretazione nel sottovalutato Ad Astra è forse, insieme a The Tree of Life, la più grande della sua carriera. Sulla scia delle grandissime prove di Ryan Gosling in Drive e Blade Runner 2049, Pitt trascina sulle sue spalle l’intero film recitando quasi esclusivamente con lo sguardo – uno sguardo stanco, malinconico, disilluso, che ci comunica tutta la storia del personaggio prima ancora che ci venga raccontata. L’attore esplora e trasmette le sensazioni e i pensieri che attraversano Roy nel corso della sua ricerca con una delicatezza che raramente ha mostrato sullo schermo prima d’ora: la sua interpretazione è un turbinio di emozioni che affiorano solo in momenti precisi, seguendo un crescendo che arriva al suo climax nel devastante quanto catartico incontro tra Roy e suo padre. Brad Pitt è l’elemento che fa sì che Ad Astra non si diventi mai un film eccessivamente cerebrale: il cuore pulsante dell’opera sta proprio nel suo ritratto di un uomo martoriato dal dolore e dalla solitudine eppure alla continua ricerca di un motivo per vivere.

Adèle Haenel e Noémie Merlant – Ritratto della giovane in fiamme

Un film meraviglioso sotto ogni punto di vista, Ritratto della giovane in fiamme non potrebbe però funzionare senza le straordinarie interpretazioni delle sue due protagoniste. Noémie Merlant, nei panni della pittrice Marianne, regala una prova attoriale sottilissima: il personaggio avrebbe potuto essere quasi passivo nei panni di un’attrice meno capace, ma la Merlant rende Marianne un’osservatrice acuta e intelligente, a cui ci affezioniamo e di cui seguiamo con interesse la traiettoria emotiva ed esistenziale. Adèle Haenel, invece, incarna tutta l’infelicità, la voglia di indipendenza, la rabbia e la sensualità di Héloïse, che ribollono per la prima metà del film per poi esplodere quando l’amore non può più rimanere inespresso. Sono due ottime performance prese singolarmente, ma è come interagiscono tra loro a renderle veramente strepitose: le due attrici, i cui diversi stili si sposano con perfetta complementarietà, catturano magnificamente l’intimità, la passionalità e l’intensità del rapporto che si crea tra Marianne ed Héloïse, rendendo Ritratto della giovane in fiamme una storia d’amore semplicemente leggendaria. E lo straziante primo piano finale della Haenel è forse il più grande pezzo di recitazione di quest’anno.

Jennifer Lopez – Le ragazze di Wall Street

Il personaggio di Ramona in Le ragazze di Wall Street è sicuramente costruito per far risaltare le qualità come performer di Jennifer Lopez che già il pubblico conosce: la sua straordinaria presenza scenica, capace di bucare lo schermo, e il suo innegabile sex appeal. E sì, in effetti queste qualità sono evidenti come non mai ed è grazie ad esse che Ramona è uno dei personaggi più magnetici e accattivanti di quest’annata cinematografica: ma quella della Lopez non è una performance che poggia sul solo carisma, anzi, la sua caratterizzazione è molto più complessa di quello che appare a prima vista. In lei convivono la spietata freddezza di una criminale sempre più ambiziosa, la disperazione di una donna che lotta per garantire un futuro migliore a sé stessa e a sua figlia, e l’affetto protettivo e materno che prova per le altre “ragazze di Wall Street”: kingpin, survivor e madre – Ramona è tutte queste cose contemporaneamente, e la Lopez non si lascia sfuggire nessuna sfaccettatura. E come dimenticare il suo ingresso in scena, una pole di dance di quattro minuti sulle note di Criminal di Fiona Apple? Fin da quel momento, sappiamo che la Ramona di Jennifer Lopez non è “solo” sensuale – è potente, una donna nel pieno e assoluto controllo del proprio corpo.


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