Di Michelangelo Bedetti
La notte del 14 giugno 2017 brucia la Grenfell Tower di Londra. 87 i morti e 70 i feriti. Non è un attacco terroristico, ma il risultato di una grande negligenza e forse di qualche speculazione. Il cancelliere ombra socialista John McDonnell arriva a definirlo un ‘omicidio sociale’, gli aguzzini da lui accusati: funzionari di distretto, conservatori, poco interessati alle sorti dei cittadini più poveri, che tanto non voterebbero comunque per loro.
E poi ci sono anche gli amministratori di condominio, più avvezzi a tagli di budget che a installazioni di impianti a norma; e infine il progetto di riqualifica che partiva da priorità estetiche, l’inserimento di pannelli, ahinoi, altamente infiammabili, piuttosto che dalla messa in sicurezza dell’edificio. Meglio che più di 600 persone rischino la vita tra le fiamme, piuttosto che un turista scorga un’altra cicatrice sul volto di Londra. Questa tragedia ci fa ricordare quanto in questo momento storico, le sorti di molti cittadini indigenti siano spesso strettamente legate alle scelte di pochi privilegiati, che prima di tutto scelgono di ignorare l’esistenza dell’indigenza stessa. Ricchi e poveri figli della crisi economica del 2008, oramai al suo decimo compleanno dall’inizio della recessione, e della nuova politica finanziaria che governa ogni relazione economico-diplomatica tra paesi sviluppati. Ricchi figli della crisi che comprano appartamenti vuoti oltreoceano, solo come moneta di investimento, come con la Aykon Tower in riva al Tamigi, arredata e gonfiata nel prezzo dagli incubi allucinogeni di Donatella Versace. No home, house only. Mentre a Johannesburg, i figli poveri della crisi, a cui magari erano stati accordati i più impenetrabili e disgraziati mutui, occupano abusivamente le rovine del fallito progetto Ponte City, un grattacielo destinato alla casta bianca.
Sono questi gli spazi vuoti che il regista britannico Ben Wheatly e la sceneggiatrice Amy Jump decidono di occupare con i loro condomini, riadattando il romanzo del 1975 di J.G. Ballard e raggiungendo una saturazione di individui che ha del claustrofobico.
Il duo Wheatly-Jump si interfaccia ad un opera scritta in un periodo di diverso contrasto sociale e di differente seme culturale, cercando (con discreto successo) di attualizzarla pur coraggiosamente mantenendo l’ambientazione nella metà degli anni 70. Quando Ballard scrisse High-Rise (pubblicato in Italia come “Il Condominio”), i palazzi erano ancora pieni. Erano gli anni del Nuovo Brutalismo, movimento architettonico nato dalle riflessioni e dagli esperimenti dello svizzero-francese Le Courbousier, presto trapiantato con entusiasmo in Inghilterra. Imponenti giganti di cemento, volti ad accogliere molte migliaia di persone, ma anche supermercati, negozi, palestre e piscine; questi i palazzi del mondo di Ballard e di quello deforme di High-Rise. “Una vera e propria comunità verticale, senza affiliazioni politiche, capace di difendere i propri interessi e sviluppare i propri valori umani”, così lo stesso Le Courbousier raccontava queste creazioni, partorite dalla mente di un architetto con delle idee forti, pervasive, volte a garantire il progresso e la stabilità della comunità. Architetti come Erno Goldfinger, che si trasferì in cima alla sua Balfron Tower per testarne il design e condurre ricerche ed esperimenti sociologici con l’aiuto della moglie. Ma tra piani congeniati e stanze adibite, si creano risacche di aria marcia, spazi di nessuno e di sola funzione transitoria, vere e proprie città interne. Spazi invasi facilmente dal crimine, soprattutto quando progetti troppo ambiziosi subiscono tagli e presto sono rappezzati e assegnati a comunità in preda alla miseria o al tumulto sociale, come accadde per la Trellick Tower londinese, guadagnatasi il soprannome di Tower of Terror. È il fallimento della promessa modernista e di quella positivista, la ferale natura dell’uomo che scardina i tasselli dell’ordine pianificato.
In High-Rise (sottotitolato “La rivolta” in Italia), anche il fisiologo Robert Laing (Tom Hiddleston) si trasferisce in una comunità verticale, un grattacielo brutalista appena completato; a pochi chilometri dalla City, ma come isolato dal mondo. Il grattacielo è imponente, moderno e ricco di amenità, così però come stratificato e pericolosamente eterogeneo. Il dottor Laing cerca tranquillità e anonimato dopo il trauma del suicidio della sorella a cui era molto legato (evento presente sullo sfondo, ma mai approfondito) e spera di trovare finalmente pace in un blocco di cemento, metallo e vetro, felicemente piazzato a metà strada lungo l’altezza dell’edificio. Sotto di lui le famiglie più povere, sopra quelle più ricche, via via che si sale fino all’attico di Anthony Royal (Jeremy Irons), l’architetto visionario del condominio. Laing viene invitato ai party caleidoscopici e su di giri dei “vicini di sotto” e a quelli snob e altezzosi dei “vicini di sopra”, qui comincia a comprendere le dinamiche sociali che lo circondano, ma ne mantiene le distanze. Presto però la relazione con la vicina Charlotte (Sienna Miller), lega Royal e il dottore in un rapporto di reciproco interesse e a tratti quasi di protezione figliare. “Sembra il diagramma inconscio di un qualche evento psichico” osserva Laing di fronte ai progetti edili di Royal in una scena iniziale, “Forse diventerà un paradigma per futuri sviluppi” conclude l’architetto nell’ultima cena con il dottore. Per quanto Royal possa cercare, indefesso e laborioso, di completare il progetto di ordine e simmetria antropologica da lui sognato, presto questi paradigmatici sviluppi scendono drammaticamente sul grattacielo, dove scoppia un rivolta di classe, alimentata dalle piccole brutalità del documentarista Richard Wilder (Luke Evans), perfetto contraltare di Laing eretto a simbolo del working class struggle inglese. La protesta porterà violenza ed anarchia ai limiti della commedia post-apocalittica, ma mai realmente un sovvertimento dell’ordine come voluto da Wilder, quanto piuttosto l’opportunità di insediare un nuovo centro di potere, prima che la vita torni alla sua nuova “normalità”.
Una delle prime battute di Royal preannuncia il suo stesso destino, così come quello del palazzo: “Sono l’architetto del mio stesso incidente”. Seppure in cima alla piramide sociale, Royal non è più realmente in controllo. Osteggiato dalle donne di casa e abbandonato dai clientes, assiste spettatore alla rivolta. “Non lavoro per te. Lavoro per l’edificio“, ruggirà uno dei dipendenti con naturale ferocia. Ed è così che l’edificio senza nome viene riconosciuto come il vero protagonista, cardine della pellicola, infinitamente superiore e diverso rispetto a come progettato, in grado di generare forze invisibili di condizionamento meccanicistico ed un proprio zeitgeist. Vero colpevole e teatro naturale di una falsa rivoluzione, oggetto di mito e contraddizione. Laing è l’unico personaggio in grado di muoversi come un cellula attraverso questo complesso organismo. Il dottore è controllato, riservato ed acquiescente; “prospera come una specie avanzata in un habitat neutrale“, conclude Wilder, ricoperto di sangue. Ma Laing da semplice cellula, si trasformerà nell’organismo stesso. Sceso nel supermercato in rivolta Laing si guadagna a cazzotti sui denti un barattolo di vernice grigia, mentre gli altri si litigano beni di prima necessità. Tornato al suo appartamento inizia freneticamente a dipingere le pareti cercando di ricalcare il colore del cielo londinese, in un atto disperato quanto vagamente erotico. Il dottore si sporca di vernice, si fonde con le pareti, uomo e struttura si uniscono in un ibrido unico, un concetto non estraneo alla letteratura post-moderna così come alla cinematografia di David Cronenberg, già responsabile dell’adattamento di Crash e frequente collaboratore del qui-produttore Jeremy Thomas. Rispetto al materiale originale e proprio alla cinematografia di Cronenberg, il film di High-Rise preferisce la codifica di immagini più colorate, ironiche e addirittura liriche, ma non minacciose e misteriose come accade invece in Crash (1996) o nel lontano parente, nonché contributo originale, che è Shivers – Il demone sotto la pelle (1975), dove l’orrore veniva incubato dentro alle geometrie della modernità in maniera più viscerale.
Se nel libro l’incombere del conflitto è rivelato con sottili micro-aggressioni sparse sapientemente tra i capitoli, il film deve necessariamente condensare il tutto in poco tempo a schermo. Qui le immagini del direttore della fotografia Laurie Rose e il montaggio del sinergico duo Wheatley-Jump ne escono vincitori. Un possibile difetto che viene trasformato in un pregio stilistico, attraverso montaggi di forti immagini suggestivo-contrappositive, passando da feste al cardiopalma, bevute incontrollate, corpi tumefatti a inquadrature di frutta che marcisce e sequenze al rallentatore di incidenti e riflessioni che acquistano di lirismo compositivo. Già nella psichedelia desaturata di A Field In England – I disertori (2013), regista e sceneggiatrice avevano dimostrato una grande sensibilità in sala di montaggio, capaci non solo di giocare con lo spazio, ma anche con il significato. I due raggiungono nuovi picchi in High-Rise con raffiche di flash-forward/flashback che ricordano molto il lavoro del regista e connazionale Nicolas Roeg (A Venezia, Un Dicembre Rosso Shocking; 1973) in quanto al linguaggio. È interessante notare come il film si collochi in coda a un periodo di tower horror, quali Attack the Block (Joe Cornish 2011), The Raid (Gareth Evans 2011), Dredd (Pete Travis 2012) e Containment (Neil McEnery-West 2015), pellicole di ambientazione contemporanea che rappresentano segmenti sociali in ascesa o in fuga da grattacieli condominiali.
Wheatley articola invece la contemporaneità nel passato, attribuendo al Ballard del ’75 un valore profetico. “Il futuro che Ballard stava proiettando era oltre il 1975“, racconta Wheatley al BFI “abbiamo vissuto in quel futuro. Il film è uno sguardo a quel libro, dalla prospettiva dei sopravvissuti. Siamo in un perpetuo ciclo tra anni ‘70/’80’/90. Un boom seguito da un crollo, poi così ancora.” È in virtù di questa universalizzazione che nel film Wheatley e Jump trasformano gli avventori dell’attico di Royal in sociopatici 1%ers, calcando la mano sulla satira quando li mostrano intenti nei loro feticismi falso-aristocratici e patetico-bucolici. Allo stesso modo Laing viene trasformato da Il Conformista di Bertolucci (1970), a proto-yuppie e infine in neo-individualista. Il nome di Laing quasi certamente si riferisce allo psichiatra radicale (o anti-psichiatra) R.D. Laing, dottore e celebrità, autore de La Politica dell’Esperienza (1967), in cui mette in dubbio i significati attribuiti di normalità e sanità mentale, che ricondotti al contesto del film ci fanno porre una domanda non tanto sulla sanità ma sulla devianza mentale dei personaggi: chi è il più pazzo tra Royal, Laing e Wilder? La satira liberale di Ballard, che lui stesso definiva “ironia terminale”, forse non prende posizione con decisione a proposito, rimanendo estremamente ambigua, ma non tarda a mettere in mostra gli orrori di tutte le parti coinvolte, delineando su carta i conflitti interni in risposta ai grandi cambiamenti esterni. Qui c’è forse il maggiore difetto del film, che non sempre riesce a mostrare le ferite sotto le apparenze, limitandosi a suggerirle ed esteticizzarle. In definitiva uno sci-fi antropologico che riesce a descrivere un piccolo microcosmo naturalistico più che la profezia della nascita di una nuova civilizzazione, configurabile con una specie avanzata di macchine. Più condannatoria la figura del piccolo Toby (Louis Suc), vero figlio della torre, avatar della generazione del regista e prospettiva caleidoscopica per lo spettatore in alcuni dei momenti più violenti del film. Toby alla fine del film siede su un avamposto costruito da lui con ferraglia e spazzatura e fuma una pipa a bolle mentre ascolta un dibattito di Margaret Thatcher alla radio. È la promessa capitalista per una generazione in cerca di cambiamento e un diabolus ex machina per lo spettatore.
In Italia il film è uscito in home video lo scorso 12 luglio 2017.