Le scelte di Anna Martignoni
Con il 1990, la serialità televisiva non è più stata la stessa. Grazie al lavoro congiunto in fase di scrittura di David Lynch e Mark Frost, nasce I segreti di Twin Peaks, lo show per il piccolo schermo che ha cambiato per sempre le carte in tavola in televisione. Un mix senza precedenti tra soap opera, racconto investigativo e suggestione onirica da incubo, Twin Peaks è il risultato felicissimo della volontà di raccontare la violenza dell’America di provincia con una potenza visiva e suggestiva ancora senza precedenti. I migliori episodi della run classica (1990-1991) sono tutti diretti dallo stesso Lynch, ma forse l’appuntamento che più ha scioccato gli spettatori molto meno smaliziati del tempo è stato “Lonely Souls”, dove viene rivelata la terribile verità dietro l’assassinio brutale di Laura Palmer. Immagini di una violenza, ancora oggi, piuttosto inaudita. Gli ascolti da capogiro della serie di Frost e Lynch, dopo questa rivelazione, sono crollati progressivamente.
Da molti considerato come uno dei prodotti televisivi migliori di sempre, c’è almeno da dire che Breaking Bad ha segnato quantomeno il traguardo definitivo tra serialità d’autore e grande successo popolare. Andata in onda in sordina nel 2008, la serie creata da Vince Gilligan ha visto nascere negli anni a venire uno stuolo di fan e aficionados che ne hanno decretato un successo travolgente e senza pari per quello che solo all’apparenza è un crime drama. Questo dramma famigliare raccontato con i topoi dell’ascesa e della caduta nel new gangster Walter White vede il suo culmine di scrittura e tensione narrativa nel finale della quarta stagione, dal titolo “Face Off”, resoconto al cardiopalma tra i protagonisti e il l’antagonista d’eccezione. Nonostante la quinta ed ultima stagione premiatissima, è qui che si chiude probabilmente la narrazione più avvincente di una serie pressoché perfetta. Il fiore all’occhiello dell’emittente televisiva AMC dopo “Mad Men”.
Le scelte di Dario Ghezzi
DARK, stagione 3, episodio 8, “Das Paradies”
SENSE8, stagione 2, episodio 12, “Amor vincit omnia”
GREY’S ANATOMY, stagione 6, episodi 23-24, “Sanctuary”, “Death and All His Friends”
Le scelte di Giuseppe Fadda
EUPHORIA, stagione 1, episodio 7, “The Trials and Tribulations of Trying to Pee While Depressed”
Depressione racchiude perfettamente tutti i motivi che rendono Euphoria il miglior teen drama degli ultimi anni. Con la sua estetica glitterata e allucinata, il suo montaggio frenetico e la regia personalissima che spesso si fa veicolo dei processi mentali dei protagonisti, Euphoria potrebbe essere un trionfo di stile a scapito del contenuto, ma fortunatamente la perizia tecnica è affiancata da una sceneggiatura attenta, decisamente attuale e arguta e da un cast strepitoso. Questo è quanto mai evidente in Depressione, prevalentemente incentrato sullo stato mentale della protagonista Rue, diretta inesorabilmente verso un baratro di disperazione che si alterna a fasi maniacali. Il regista Sam Levinson porta lo spettatore nella psiche del personaggio e da lì assistiamo ai suoi deliri e alle sue allucinazioni, mentre passa dall’improvvisarsi detective al vedere pillole parlanti, fino al suo lento scivolare nel malessere: raramente la depressione è stata rappresentata in maniera così viscerale, cruda e vivida, tanto che ci sembra quasi di partecipare al dolore di Rue (anche grazie alla magnifica prova attoriale di Zendaya). E il climax dell’episodio, in cui Jules (l’altrettanto brava Hunter Schafer) balla sulle note di Kelsey Lu mentre realtà e allucinazione si confondono davanti ai suoi occhi, è una scena semplicemente da manuale.
FEUD: BETTE AND JOAN, stagione 1, episodio 8, “You Mean All of This Time We Could Have Been Friends?”
Feud, incentrata sulla famosa ostilità tra le due dive Bette Davis e Joan Crawford, è forse la serie più sottovalutata di Ryan Murphy: a tratti deliziosamente camp ma mai tanto da distogliere lo spettatore dalla critica di fondo a uno star system corrotto e misogino. La puntata finale della serie, che segue gli ultimi anni di vita di Joan Crawford, è una conclusione sorprendentemente elegante e delicata, un affezionato tributo a un’attrice leggendaria e un intelligente somma del tema principale della serie – e cioè di come il sessismo sistemico dell’industria cinematografica (e non solo) costringa le donne alla competizione feroce, distruggendo ogni potenziale solidarietà, per poi metterle da parte quando superano una certa età. Jessica Lange, che nel resto della serie regala una performance volutamente (e splendidamente) sopra le righe, qui ritrae il declino fisico e mentale della Crawford con straziante realismo: la sequenza centrale dell’episodio, quasi elegiaca nella sua tenerezza, in cui un’ormai morente Joan immagina di passare un’ultima cena con Bette Davis, Hedda Hopper e Jack L. Warner, di chiudere i conti con il passato e risanare le ferite ancora aperte, è forse il picco dell’intera produzione di Ryan Murphy.
THE HANDMAID’S TALE, stagione 2, episodio 2, “Not Women”
Uno degli errori più grandi della terza stagione di The Handmaid’s Tale è stato quello di eliminare i flashback sulla nascita della Repubblica di Gilead: perché, se vogliamo, ad essere ancora più spaventoso di un regime totalitario è il processo con cui tale regime si afferma smantellando una per una ogni conquista democratica. Ed è proprio per questo che Nondonne, una delle puntate a dare più spazio ai flashback, è una delle puntate migliori della serie, se non la migliore. In questa puntata, le vicende della protagonista June (qui in attesa del prossimo passo verso la fuga mentre si nasconde nella sede abbandonata del Boston Globe) fungono da malinconica cornice alla storia di Emily (Alexis Bledel, eccezionale), di cui scopriamo per la prima volta la vita ante Gilead mentre assistiamo alle sue terribili condizioni nel presente (è rinchiusa nelle Colonie dove è costretta a spalare rifiuti tossici). E’ un episodio splendidamente costruito e i flashback, in particolar modo, sono devastanti: nel ritrarre questa donna perdere il suo lavoro, la sua famiglia e la sua libertà nella piena indifferenza del mondo circostante, The Handmaid’s Tale ci ricorda quanto siano fragili i diritti che diamo per scontati.
Le scelte di Massimo Vozza
BUFFY L’AMMAZZAVAMPIRI, stagione 5, episodio 16, “The Body”
Crescendo tra la fine degli anni ’90 e i primi anni del ‘2000 non si può non essersi soffermati a guardare la serie tv Buffy l’ammazzavampiri, creata da Joss Whedon nel 1997; la geniale idea alla base della serie era stata il prendere il cliché della teenager preda nei film dell’orrore e rigirarlo trasformandola in una cacciatrice di vampiri, demoni e chi più ne ha più ne metta, trattando nel frattempo tematiche tendenzialmente adolescenziali, come la crescita (centrale la questione della responsabilità), l’amicizia, la famiglia e l’amore. La posta però si alzava man mano che cresceva l’età della protagonista e soprattutto del suo fandom, fino a toccare corde adulte. La maturità massima dell’intera serie arriva probabilmente con il sedicesimo episodio della quinta stagione intitolato The Body (Un corpo freddo), diretto e scritto da Whedon in persona: l’episodio comincia come finiva il precedente, ossia con Buffy che torna a casa e trova la madre (da diversi episodi malata) immobile distesa sul divano, spiazzando lei e lo spettatore che la credevano guarita. Nei primi minuti, i maggiormente degni di nota, Sarah Michelle Gellar regala una prova recitativa davvero degna, esaltata dalla camera costantemente su di lei, nell’interpretare la protagonista intenta a cercare di soccorrere inutilmente la madre e mostrando un ampio spettro emozionale che culmina con la shoccante consapevolezza che il corpo di Joyce Summers è un corpo senza vita. Whedon prosegue l’episodio soffermandosi minuziosamente sul confronto con la scomparsa di Joyce e con il lutto in generale anche seguendo gli altri comprimari della serie e coinvolgendo lo spettatore come non mai: seppur in Buffy l’ammazzavampiri il tema della morte era di casa, i toni profondi ed esistenziali inediti qui usati, soffermandosi in primis sulla naturalità di essa, risultarono una straniante e coraggiosa eccezione: nessun nemico sovrannaturale da sconfiggere, solo la fine da dover accettare come parte dell’esistenza umana stessa. Almeno fino al vampiro che si risveglia al concludersi dell’episodio, messo lì a ricordarci improvvisamente che serie stavamo guardando.
MAD MEN, stagione 4, episodio 7, “The Suitcase”
Quando si parla di una serie capolavoro come Mad Men capita che si nomini un episodio come il migliore e poi subito dopo se ne aggiunga un altro e un altro ancora. La verità è che la serie creata da Matthew Weiner raggiunse svariati picchi di perfezione che è difficile ancora oggi scegliere: questa serie ha una scrittura dei personaggi sublimi, interpretati da attori e attrici che, in perenne stato di grazia, si sono mossi per sette stagioni nella curata e mai scontata ricostruzione del decennio che andava dal 1960 al 1970. Un episodio tra i maggiormente riusciti che si potrebbe però definire il cuore della serie è decisamente il settimo delle quarta stagione intitolato The Suitcase (Buon compleanno). Al centro dell’episodio il complesso rapporto tra Don e Peggy che, come spesso nelle sette stagioni, acquisisce mai come questa volta valenze universali, trasformandosi in quello più generico tra mentore e apprendista, uomo e donna e generazioni differenti. Gli interpreti Jon Hamm e Elizabeth Moss raggiungono la massima complicità interpretando i rispettivi personaggi in un incontro/scontro (che si svolge parallelamente a quello famoso di boxe tra Sonny Liston e Muhammad Ali) dal quale entrambi usciranno diversi. Un numero ristretto di location, unicamente personaggi secondari, lo spot della Samsonite da ideare, e Draper e Olson che a suon di botta e risposta, silenzi e cambi repentini di umore e toni, mettono ancora una volta in discussione le loro vite; e se la più giovane, l’attiva tra i due, riesce nel durante ad apportare sostanziali modifiche alla sua vita, l’altro, passivo, riesce a ideare l’ennesima trovata vincente nel suo lavoro e, cosa più importante, a vedere il rapporto con Peggy totalmente sotto una luce diversa, consapevole che nonostante la recente scomparsa di una persona cara, l’unica che credeva lo conoscesse davvero, non è rimasto totalmente da solo.
IL TRONO DI SPADE, stagione 6, episodio 10, “The Winds of Winter”
Per un intero decennio, Game of Thrones è stata la serie dei record e ha coinvolto milioni di spettatori di tutto il mondo fino alla contestata conclusione. Le opinioni sulla qualità della serie in generale sono ancora oggi fonte di dibattito: i “duri e puri” pongono il suo declino definitivo al concludersi della quarta (o, al massimo, della quinta) stagione, quando il lavoro degli ideatori David Benioff e D. B. Weiss avanzò senza il supporto dei romanzi di George R. R. Martin dai quali è tratta. Eppure, a livello produttivo più che narrativo, è stato proprio in seguito al giro di boa che la serie ha alzato definitivamente l’asticella, regalando momenti spettacolari che mai prima si erano potuti apprezzare in un prodotto esclusivamente televisivo. Non è un caso quindi che scegliendo tra i migliori episodi della serie sia emerso il decimo episodio della sesta stagione, The Winds of Winter (I venti dell’inverno): al di là dei diversi episodi con al centro delle battaglie, cinematograficamente una più bella dell’altra, il finale della sesta stagione creò la sintesi perfetta tra alta scrittura e impianto produttivo eccezionale, il tutto supervisionato dalla grande regia di Miguel Sapochnik; inoltre si tratta di un episodio coinvolgente per i fan soprattutto della prima ora, dato il racconto di alcuni degli snodi narrativi più attesi (la toccante rivelazione sulla discendenza di Jon Snow, l’epica partenza di Daenerys Targaryen verso Westeros con i draghi e la sua enorme flotta, la sorprendente vendetta di Arya Stark nei confronti di Walder Frey). Il momento maggiormente degno di nota per il suo impianto visivo esaltato con grande estro da quello musicale grazie al compositore della serie Ramin Djawadi, che qui forse raggiunge la sua più alta vetta, è però la sequenza iniziale: la preparazione al processo nel Tempio di Baelor, lo svolgimento e la distruzione del tempio stesso vengono narrate attraverso un sapiente montaggio alternato e dalla composizione The Light of The Seven che, come il susseguirsi degli eventi, procede in un crescendo fino all’esplosione finale. Mattatrice di questo momento è poi la plurinominata Lena Heady che, nonostante la mancanza di riconoscimenti, è stata capace di rendere definitivamente iconica l’amata e odiata Cersei Lannister.
Le scelte di Daniele Ambrosini
Si tende spesso a dimenticare quanto belle e travolgenti fossero le prime stagioni di Homeland, complice forse il fatto che abbiano debuttato in un periodo di passaggio per la televisione americana, a cavallo tra la fine della messa in onda di Breaking Bad e l’arrivo sul mercato di Netflix, e che l’accoglienza riservata ad alcune delle stagioni successive (che, con il senno del poi, sono comunque ottime) non sia stata proprio calorosa. Ma nonostante l’attenzione nei confronti di questa serie sia andata scemando, Homeland è sempre stata in grado di realizzare episodi straordinari e dal forte impatto, tra questi ricordiamo “The Star” (3×12), “From A to B and Back Again”(4×06) e soprattutto “Q&A”, da noi “L’interrogatorio”. Posto praticamente a metà della seconda stagione l’episodio in questione è un vero e proprio tour de force attoriale che vede opposti l’agente della CIA Carrie Mathison di Claire Danes e il marine e sospetto terrorista Nicholas Brody di Damian Lewis in un interrogatorio serrato e scritto magnificamente nel quale il complesso rapporto tra i due personaggi diventa ancora più ambiguo e affascinante di quanto già non fosse prima. In contemporanea, un giovane Chalamet, che interpreta il figlio del vicepresidente degli Stati Uniti, porta fuori per un appuntamento la figlia di Brody e finisce per investire un uomo. Si tratta di un’ora di televisione intensa ed incredibilmente soddisfacente, invecchiata al punto giusto da sembrare un episodio classico e tanto bello da meritare un posto in questa lista.
MR. ROBOT, stagione 3, episodio 5, “eps3.4_runtime-error.r00”
Mr. Robot è probabilmente l’unica vera serie d’autore del panorama cinematografico televisivo americano. L’unica ad essere stata concepita su più stagioni ad essere stata portata avanti con un’impronta così fortemente autoriale ed identitaria. E allo stesso tempo è una delle serie più belle e ingiustamente sottovalutate. Nel corso di quattro stagioni Sam Esmail ha regalato al suo pubblico numerosissimi episodi memorabili, e tra i più discussi e apprezzati in assoluto ci sono quelli che differiscono dallo stile narrativo o dalla messa in scena tradizionale della serie, come l’episodio muto “405 Method Not Allowed” (4×05) o l’episodio dall’impianto teatrale “407 Proxy Authentication Required” (4×07), o ancora “eps3.4_runtime-error.r00” (3×05), un’ansiogena corsa contro il tempo girata in un efficacissimo finto pianosequenza. Dovendo scegliere un solo titolo, la mia preferenza è ricaduta su quest’ultimo. Nell’episodio Elliot scopre che la Dark Army ha intenzione di avviare la fase due, mettendo a rischio la vita di molte persone e l’equilibrio del mondo occidentale, mentre Angela riceve istruzioni da Irving su come raggiungere una stanza sicura e copiare dati fondamentali per l’avvio della fase due. Tutto mentre intorno a loro scoppia una protesta violenta. La tecnica del pianosequenza rende l’intera esperienza snervante e adrenalinica, oltre a regalare anche all’episodio una forma elegante e una componente visiva di altissimo livello. Tutto funziona perfettamente, anche quando ci si prende dei rischi, cosa che Mr. Robot sa fare con estrema grazia.
VEEP, stagione 4, episodio 10, “Election Night”
Veep è una delle serie più esilaranti degli ultimi anni, e, nonostante abbia chiuso i battenti da più di un anno, resta una delle più attuali. Il suo sguardo cinico e tagliente alla politica americana, alle sue contraddizioni e ai suoi meccanismi, rendono Veep una serie destinata a rimanere a lungo nella memoria collettiva. Selezionare tre episodi della recente storia televisiva per rappresentare l’eccellenza dell’attuale offerta seriale non è un compito facile, e sicuramente l’istinto di lasciare fuori le commedie a favore di progetti più impegnati è forte, ma Veep ha prodotto talmente tanti episodi di qualità che è assolutamente impossibile non prenderla in considerazione. E se c’è un episodio che mette in mostra tutti i pregi della serie è proprio Election Night, l’episodio finale della quarta stagione, nonché l’ultimo ad essere stato scritto dal suo creatore, Armando Iannucci, prima della sua fuoriuscita dalla serie. In questa densissima mezz’ora di televisione assistiamo alle elezioni presidenziali, dove la democratica Selina Meyer deve difendere il suo posto alla Casa Bianca. Una serie di svolte assurde fanno sì che una battaglia all’ultimo voto si vada a risolvere nel più assurdo dei modi. Uno dei più bizzarri cavilli della costituzione americana è al centro della svolta finale dell’episodio, che è un gancio eccellente per la stagione successiva, ma anche una conclusione perfetta per la narrazione della quarta stagione. Un episodio da manuale, giustamente vincitore dell’Emmy alla miglior sceneggiatura nel 2015.