Ecco dunque una personale lista dei prodotti cinematografici più deludenti, siano essi per fiducia in grandi autori mal risposta, blockbuster da trailer ingannevoli e anche piccole produzioni dalla vana supponenza di voler scimmiottare le grandi produzioni.
Ron Howard ha convinto il pubblico con la trasposizione dei libri di Dan Brown Il codice da Vinci e Angeli e Demoni, ma questo terzo episodio, causa forse una trama di fondo meno avvincente è più dispersiva rispetto ai due capitoli precedenti, vede il poco affiatato duo in una corsa contro il tempo ormai snervante, una minaccia vagamente “jamesbondiana” lontana da nemici concettuali come il carmerlengo o l’opus dei.
Blair Witch (2016)
Un gruppo di studenti universitari si avventura nella foresta di Black Hills, nel Maryland, per cercare di svelare il mistero legato alla sparizione della sorella di James Donahue, Heather, avvenuta 17 anni prima e che in molti pensano sia collegata alla leggenda della Strega di Blair. Il gruppo è inizialmente ottimista, soprattutto quando alcuni abitanti del posto si offrono di guidarli nella foresta. Nel corso di una notte infinita, però, i ragazzi iniziano a sentire intorno a loro una presenza sinistra e lentamente si rendono conto che la leggenda è molto più reale e inquietante di quanto potessero immaginare.
Un tentativo di arruffianarsi i fan del capitolo precedente The Blair Witch Project, geniale nella sua ingenuità, tanto da diventare un cult degli anni ’90, malamente reinterpretato da Adam Wingard, che in un’epoca di horror basati su chat skype, telecamere di sicurezza e cellulari, non impaurisce più nella limitata visibilità del mezzo amatoriale, innervosendo anzi lo spettatore, che ancora una volta, della strega di Blair, avrà solo un accenno.
Allegiant (2016)
Il vecchio sistema governativo di Chicago è crollato e Tris ha rivelato agli abitanti della città come tutti facciano parte di un esperimento. Tuttavia, con la dissoluzione dell’ordine sociale non svaniscono i vecchi conflitti, soprattutto tra Alleanti ed Esclusi. Invitata a una riunione degli Alleanti, Tris scopre di far parte della rappresentanza che andrà oltre la recinzione…
Inutile cercare di giustificare un’altra saga basata un futuro distopico “non troppo lontano”, dove il/la protagonista lotta per salvare la classe operaia oppressa da tirannici, eleganti e carismatici villain interpretati spesso da attori di prima classe evidentemente circuiti per partecipare a progetti che si dimostrano macchie imperdonabili sui loro impeccabili curriculum (vedasi Kate Winslet, Naomi Watts e Jeff Daniels per questa saga specifica, Meryl Streep e Jeff Briges per The Giver e Patricia Clarkson per Maze Runner). Al terzo buco nell’acqua per la produzione di The Divergent, si pensa ora di concludere la saga con un film Tv piuttosto che con una grande produzione cinematografica. Il cast formato da tutte le giovani promesse e raccomandati da teen choice awards (Shailene Woodley, Theo James, Zoë Kravitz, Miles Teller e Ansel Elgort) non riescono a bilanciare questo progetto che irrimediabilmente puzza di già visto. Una decina di anni dopo Hunger Games forse se ne sarebbe sentita la necessità, ma purtroppo per Robert Schwentke è troppo presto, e il paragone con la saga letteraria/cinematografica della passata stagione è inevitabile.
Civil War (2016)
Steve Rogers e gli Avengers sono costretti ad affrontare i danni collaterali causati dalla loro lotta per proteggere il mondo. Dopo che la città di Laos, in Nigeria, viene colpita dall’ennesimo incidente internazionale che vede coinvolti gli Avengers, le pressioni politiche chiedono a gran voce un sistema di responsabilità e un consiglio d’amministrazione che decida quando richiedere l’intervento del team. Questa nuova dinamica divide gli Avengers che, al tempo stesso, tentano di proteggere il mondo da un nuovo e malvagio avversario.
Dai fratelli Russo, registi di questa pellicola e del fiore all’occhiello della Marvel The Winter soldier (successo di critica e botteghino che permetterà ai due reduci di Community di dirigere i due successivi film d’ensemble sugli Avengers) non ci si sarebbe aspettato un pasticcio mediocre come quello di Civil War. Partendo dal fatto che la saga fumettistica non era facilmente replicabile cinematograficamente, in primis per il gran numero di personaggi coinvolti (molti dei quali ancora da introdurre completamente) sia per tempi della pellicola che a quel punto avrebbe necessitato una divisione in due parti, viene da chiedersi se fosse davvero necessario scegliere Civil War fra tutte le sage presenti accorpandola inoltre ad una malgestita sottotrama riguardante Zemo (Daniel Brühl), risultando più simile al pasticcio di X-men: conflitto finale che al capolavoro dalle tinte spionistiche del precedente stand alone sul super soldato Chris Evans, teoricamente protagonista della pellicola, ma scavalcato fin troppe volte in favore di Robert Downey jr immobilizzato ormai nel ruolo del sarcastico miliardario, del soldato d’inverno Sebastian Stan e delle new entry del MCU Spiderman e Pantera Nera.
Una scelta piuttosto impegnativa, quella di Ewan McGregor, per esordire alla regia con la trasposizione di uno dei libri più importanti e discussi degli ultimi 20 anni; sarebbe stato richiesto un minimo di virtuosismo stilistico o un il coraggio di sperimentare una reinterpretazione personale dedita alle emozioni e non semplicemente presentare una versione chiaramente esposta del libro di Roth, che manca nel trasmettere allo spettatore le reali sensazioni legate al clima politico degli anni ’60 (comicamente meglio gestite quest’anno da Woody Allen nella sua miniserie Crisis in Six Scenes) o del dramma di perdere una figlia (grande esempio quest’anno con Julieta di Almodovar).
Ewan McGregor ha un ottimo potenziale, e sicuramente lo rivedremo trionfante tra qualche anno nelle vesti di regista, mentre invece le povere neglette Dakota Fanning e Jennifer Connely hanno perso un’occasione per ricordare ad Hollywood il loro potenziale. Una delusione del 2016 pe ril semplice motivo di aver mal sfruttato la possibilità di creare un grande film.
Chi ha saputo apprezzare le pellicole precedenti di Gus Van Sant (Elephant,Will Hunting, Milk) ha avuto un’amara sorpresa con la visione di questa pellicola, ambientata per la prima volta, in un territorio esterno a quello del regista, il Giappone, terra con la quale evidentemente sente di aver un qualche legame, già accennato nella precedente pellicola Restless. Eppure l’inquietante foresta della morte, fa da sottofondo ad un’avventura rocambolesca contro la natura selvaggia in stile Revenant, una scrittura fin troppo piena di colpi di scena a discapito di una riflessiva ricerca interiore, che si realizza parzialmente, solo con le scene comprendenti Naomi Watts.
Ghostbuster (2016)
Abby ed Erin sono una coppia di scrittrici semi sconosciute che decidono di pubblicare un libro sui fantasmi. La loro tesi consiste nell’affermare che questi sono assolutamente reali. Tempo dopo Erin ottiene un prestigioso incarico come docente della Columbia University. Quando il libro sugli spettri, ormai dimenticato, ricompare, diventerà lo zimbello della facoltà e sarà costretta a lasciare il lavoro. La sua credibilità è persa ed Erin decide a quel punto di riunirsi ad Abby aprendo una ditta di acchiappafantasmi. Scelta che si rivela vincente: Manhattan è invasa da una nuova ondata di spettri e non ci sarè altro da fare per il team che dargli la caccia.
Non c’è minimamente l’intenzione di sparare sulla croce rossa, in questo caso, su un remake mal accolto fin dalla fase di progettazione dai fan accaniti di un franchise iniziato nell’84 e che nonostante il fin troppo preventivo negazionismo della pellicola, hanno avuto tristemente ragione a mal accogliere questo progetto. Oggettivamente un buon casting formato da Kristen Wiig, Leslie Jones e Kate McKinnon e Melissa McCarthy il cui talento comico era stato dimostrato in decine sketch della nota trasmissione dal vivo Saturday Night Live (esattamente come il cast della versione originale), viene però mal gestita con una caratterizzazione dei personaggi né approfondita né riuscita nel suo tentativo di creare una tanto decanata versione al femminile/femminista di uno dei quartetti più famosi della storia del cinema. Lo stesso umorismo, complici le commedie cinematografiche di massa dell’ultimo decennio che hanno ri-caratterizzato il genere, finisce con lo stereotipare l’umorismo amalgamandolo in un non-sense collettivo (in particolare Mc Kinnon e Chris Hemsworth). Se da un lato la rappresentazione grafica dei fantasmi e qualche cameo più o meno riuscito non possono sorreggere la cattiva scrittura del film di Paul Feig ed di un villain banale, finendo scioccamente per rendere un progetto dall’immensa visibilità uno dei flop più clamorosi di sempre (insieme forse ai Fantastic 4 dell’anno scorso)
Shut In (2016)
Una produzione franco-canadese che nella vana speranza di proporre un progetto horror innovativo , ha selezionato un regista televisivo Farren Blackburn , forse ancora troppo legato ai cliché del genere, affiancandolo alla scrittura mediocre di Christina Hodson che ci propone un miscuglio mal riuscito di rapporti edipici, il dramma di uno (anzi due) handicap fisici, una suspence assolutamente sostenuta dalla semplice colonna sonora e jump scare piazzati a caso e soluzioni trite e ritrite. Un peccato vedere il cast (Naomi Watts in primis) assecondare un progetto evidentemente a basso budget (forse per un’altruista tentativo di aiutare le nuove generazioni di autori) che nel complesso però, rasenta il ridicolo.
La ragazza del treno (2016)
Rachel prende lo stesso treno tutte le mattine. Fa sempre lo stesso percorso che le permette di osservare una coppia far colazione sulla loro terrazza: oramai è un po’ come se li conoscesse. Ai suoi occhi la loro vita è perfetta, non come la sua. Un giorno, però, vede qualcosa di sconvolgente che cambierà tutto per sempre.
Un’altra trasposizione di un libro brillante, ma che a causa di una mala interpretazione, pecca nel suo tentativo di rappresentare le difficoltà di una donna rimasta sola, alcoolizzata, e con una faccenda in sospeso con il marito. Eppure Tate Taylor già aveva dimostrato di saper rappresentare adeguatamente personaggi femminili complessi tratti da libri (The Help, Un gelido inverno ecc), invece in questo caso Emily Blunt riesce ad entusiasmare con la sua performance solo nella prima parte, finendo con mal rappresentare la dimensione misogina che l’autrice Paula Hawkins si era prefissata e non creando quella suspence tanto promessa dal trailer.
Le confessioni (2016)
In Germania, in un albergo di lusso sta per riunirsi un G8 dei ministri dell’economia pronto ad adottare una manovra segreta che avrà conseguenze molto pesanti per alcuni paesi. Con gli uomini di governo, ci sono anche il direttore del Fondo Monetario Internazionale, Daniel Roché, e tre ospiti: una celebre scrittrice di libri per bambini, una rock star,e un monaco italiano, Roberto Salus. Accade però un fatto tragico e inatteso e la riunione deve essere sospesa. In un clima di dubbio e di paura, i ministri e il monaco ingaggiano una sfida sempre più serrata intorno al segreto. I ministri sospettano infatti che Salus, attraverso la confessione di uno di loro, sia riuscito a sapere della terribile manovra che stanno per varare, e lo sollecitano in tutti i modi a dire quello che sa. Ma le cose non vanno così lisce: mentre il monaco – un uomo paradossale e spiazzante, per molti aspetti inafferrabile – si fa custode inamovibile del segreto della confessione, gli uomini di potere, assaliti da rimorsi e incertezze, iniziano a vacillare.
Roberto Andò, quasi a riflesso di quanto fatto da Sorrentino con Youth, rinchiude un gruppo di personaggi (decisamente meno carismatici) in un hotel più o meno isolato, con lo scopo di discutere e sui temi della vita, la spiritualità e il degrado della politica ormai mera sottomessa della finanza. C’è però troppa spocchia nel raccontare una storia in cui le cui svolte narrative sono rare e poco rivelatorie, pretendendo però di presentarsi come un giallo; manca l’autoironia e l’interno film si regge sul personaggio del sempre bravo Toni Servillo, in questo caso monaco certosino un pò troppo giudicante e snodo della intricato (?) segreto che avvolge i capi di stato , rappresentati in tutte le loro bassezze, debolezze, inciucci sessuali e varie. Sicuramente non uno dei “grandi brutti italiani” del 2016, ma un risultato mediocre, per un autore così bravo come Andò e così poco prolifico.
La corrispondenza (2016)
Una giovane studentessa universitaria impiega il tempo libero facendo la controfigura per la televisione e il cinema. La sua specialità sono le scene d’azione, le acrobazie cariche di suspence, le situazioni di pericolo che nelle storie di finzione si concludono fatalmente con la morte del suo doppio. Sembrerebbe una mania dettata dalla passione per il rischio, in realtà è l’ossessione in cui l’atletica ragazza s’illude di sublimare un orribile senso di colpa: quello di ritenersi responsabile della tragica scomparsa del suo grande amore. Una ferita mai rimarginata. Un conto sospeso. Un’ombra che nessuna luce saprà mai dissolvere. Sarà il suo professore di astrofisica ad aiutarla nel ritrovare l’equilibrio esistenziale perduto.
Rappresentare l’amore mediato dalla tecnologia, è un compito nobile, che molti altri autori si sono prefissi negli anni (tra i più riusciti di questi ultimi anni, la serie Black Mirror), eppure Giuseppe Tornatore, riesce a metà nel suo intento, proponendo un parallelo tra l’amore fra Jeremy Irons e Olga Kurylenko, che immobilizzati in scene ripetitive (gli schermi, le telefonate, gli sms che svolgono la maggior parte degli scambi tra i due) che non permettono mai davvero al ritmo di decollare. Un’accoppiata decisamente sotto tono quella tra il regista premio Oscar e il compositore Morricone, anch’egli non proprio in splendida forma. Una piccola macchia sul curriculum del regista, che un paio di anni fa ci aveva regalato il capolavoro La miglior offerta.
I magnifici sette (2016)
Il magnate Bartholomew Bogue esercita il suo fatale controllo sulla cittadina di Rose Creek. Gli abitanti, oppressi da soprusi e vessazioni, trovano un insperato aiuto in sette fuorilegge, giocatori d’azzardo e mercenari, chiamati a proteggerli: Sam Chisolm, Josh Faraday, Goodnight Robicheaux, Jack Horne, Billy Rocks, Vazquez e Red Harvest. Mentre preparano la cittadina alla violenta resa dei conti che sta per arrivare, i sette mercenari si ritroveranno a lottare per qualcosa che va ben oltre il semplice denaro.
Un remake di un remake non è cosa facile da realizzare, ma evidentemente questo non importava a Antoine Fuqua, che ottenuto il via libera dalla Warner Bros, si è divertito a reinterpretare la “magnificenza” in sette reincarnazioni (due delle quali, suoi passati collaboratori Denzel Washington e Ethan Hawke), mai così razzialmente diversi (sbagliato dire per arruffianarsi il pubblico, dato il regista in questione) un pò immobilizzati nei loro ruoli di lanciatori di coltelli (l’asiatico), il pistolero, l’arciere, il forzuto ecc, creando un parallelo con i film supereroistici d’ensemble, con tanto di esplosioni stile Attacco al potere – Olympus Has Fallen. Una strizzatina d’occhio al titolo originale con il classico tema del film (semi)originale del 1960. Una pacchianata di puro intrattenimento, che sfrutta questa ritrovata onda western inaugurata dal Django di Tarantino e di cui si spera poter far presto a meno.