A un metro da te – La recensione in anteprima del film con Haley Lu Richardson e Cole Sprouse
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Di Giuseppe Fadda
A un metro da te si pone sulla scia di film avviata da Love Story (1970) di Arthur Hiller, ovvero quella dei film narranti storie d’amore adolescenziali tragicamente spezzate dalla malattia. I film appartenenti a questa sottocategoria, talvolta mainstream e talvolta di produzione indipendente, riscuotono generalmente un buon successo di pubblico ma solo in certi casi un responso della critica altrettanto positivo (oltre al pluricandidato agli Oscar Love Story, si distinguono l’apprezzato Colpa delle Stelle e l’ottimo Quel fantastico peggior anno della mia vita). A un metro da te, purtroppo, non raggiunge mai le vette dei film sopracitati, anche se questo non lo rende totalmente privo di elementi di interesse. Ma a livello complessivo, quest’opera, debutto alla regia dell’attore Justin Baldoni, non riesce mai a convincere fino in fondo – né, soprattutto, a commuovere.
Protagonista del film è l’attrice Haley Lu Richardson, già notata dalla critica per le sue performance in Columbus e Support the girls. Il suo ruolo è quello di Stella, una ragazzina malata di fibrosi cistica. La sua vita è limitata all’ospedale ed è scandita secondo regole rigide e precise (alcune impartite dai medici, altre dalla stessa ragazza, che ha un disturbo ossessivo-compulsivo). Stella cerca di mantenere un atteggiamento positivo, come dimostra il suo simpatico vlog su Youtube in cui parla della sua vita e della sua malattia; ma nasconde anche dei traumi e il suo equilibrio è fragile, per quanto cerchi di nasconderlo. Per questo il suo mondo è stravolto dall’incontro con Will (Cole Sprouse, di Riverdale): anche lui è malato di fibrosi cistica, anzi, la sua situazione è particolarmente critica perché non gli permette più di ricevere un trapianto di polmoni. Stella inizialmente è disorientata da questo ragazzo cinico ma intelligente e affascinante ma l’ostilità lascia presto il posto a un sentimento più tenero e profondo. Ma il contatto reciproco è negato ai pazienti malati di fibrosi cistica: essi devono stare come minimo a due metri di distanza gli uni dagli altri. La posta in gioco è alta, perché se Will dovesse contaminare Stella potrebbe farle perdere la tanto agognata chance di ricevere un trapianto.
Date le premesse, è abbastanza scontato che il film, scritto da Mikki Daughtry e Tobias Iaconis, sia melenso e occasionalmente un po’ ruffiano nel suo evidente sforzo volto a commuovere lo spettatore. Ma nonostante questo, e malgrado la trama si svolga seguendo una serie di cliché, la prima metà del film riesce ad essere sorprendentemente coinvolgente, principalmente grazie all’interpretazione della Richardson. Il personaggio di Stella non è particolarmente complesso né originale (come personalità ricorda molto la Hazel di Shailene Woodley, protagonista di Colpa delle Stelle). Eppure la Richardson riesce a darle vita propria e regala un’interpretazione luminosa e delicata, che tiene in piedi l’intero film. Sprouse è meno efficace e non è mai al livello della sua co-protagonista, ma riesce a rendere Will un personaggio accattivante malgrado la sceneggiatura lo penalizzi con frasi fatte e battute a effetto (non diversamente da Riverdale). Come coppia, i due attori funzionano bene, hanno un’intesa spontanea che riesce a dare una certa autenticità alla loro storia anche quando la sceneggiatura non è all’altezza. I personaggi di contorno ricalcano stereotipi ricorrenti ma sono caratterizzati adeguatamente: l’infermiera Barb (Kimberly Hebert Gregory) rappresenta il tipico ostacolo alla relazione tra i due giovani amanti, ma le sue motivazioni sono perfettamente giustificate e non è mai ritratta come un’antagonista; il paziente Poe (Moises Arias) ricalca lo stereotipo del migliore amico gay, ma almeno il film ci offre uno sguardo anche sulle sue vicende personali, evitando di relegarlo a un ruolo puramente di supporto e sostegno e dandogli una sua indipendenza.
Il film precipita, purtroppo, nella seconda metà. La prima parte è un ritratto almeno vagamente realistico dell’amore tra due persone e degli effetti che la malattia ha su queste persone: certo, un realismo hollywoodiano e filtrato da stereotipi, ma comunque convincente. Purtroppo, nella seconda metà, le azioni dei personaggi perdono completamente credibilità e razionalità: certo, l’idea di due persone che rischiano la propria vita per potersi amare liberamente è romantica, ma la relazione tra i due protagonisti non risulta mai così potente e viscerale da giustificarla. La narrazione scade sempre più nel melodramma e lo spettatore finisce per perdere progressivamente l’interesse nei confronti dei due protagonisti, che rischiano di diventare più esasperanti e frustranti che commoventi. La Richardson continua a difendersi egregiamente anche quando la sceneggiatura la abbandona definitivamente, ma può elevare il film solo fino a un certo punto.
Come già detto prima, A un metro da tenon raggiunge i livelli di pathos (per quanto anche in quei casi un po’ ruffiano) di film come Love Story e Colpa delle Stelle. Ma non raggiunge neanche livelli disastrosi come I passi dell’amore di Adam Shankman. Si colloca esattamente nel mezzo, un film in parte accattivante in parte snervante e complessivamente mediocre. La prova della Richardson è davvero notevole e non ci sono dubbi sul suo talento; ma al di fuori di lei, c’è poco del film che meriti davvero di essere ricordato.
Voto: 5/10
A un metro da teuscirà nelle sale a partire dal 21 marzo.