Di Simone Fabriziani
Aladdin è uno sfortunato ma adorabile ragazzo di strada, innamorato della bellissima principessa Jasmine, la figlia del Sultano di Agrabah. Per poter realizzare il suo sogno potrà contare sul sostegno del Genio, creatura magica con il potere di esaudire tre desideri per chiunque entri in possesso della sua lampada magica, ma dovrà anche sconfiggere Jafar, il malvagio stregone che mira al potere sul regno di Agrabah. Da mercoledì 22 maggio arriva nelle sale italiane Aladdin, ennesimo live-action targato Walt Disney Pictures, stavolta con il privilegio della cabina di regia affidata all’adrenalinico regista britannico Guy Ritchie.
Ma si sa, i lavori su commissione per le grandi major hollywoodiane difficilmente ritrovano le cifre stilistiche che rendono unici i proprio cineasti, e così vale anche per Ritchie, qui invischiato in un blockbuster dal puro cuore disneyiano più grande di sé stesso; eppure, se le lezioni passate di registi come Tim Burton, Kenneth Branagh e Jon Favreau non tradiscono la memoria, c’era largamente da aspettarselo, senza sorta di alcuna aspettativa differente.
Se i paragoni di qualità e l’immancabile effetto nostalgia catapulteranno la versione di Ritchie in basso nella classifica di preferenza dei più aficionados, il nuovo look cinematografico di Aladdin ha più di un pregio per cui non rientra lontanamente tra i peggiori adattamenti “in carne ed ossa” dei classici di animazione firmati Walt Disney Pictures.
A partire dalla scelta inusuale del cast maggiore, tutto improntato su volti giovani, inediti per il cinema di massa e con più di un legame di sangue con la cultura e l’etnia mediorientale: dal “principe dei ladri” Mena Massoud alla femminista principessa Jasmine con il volto di Naomi Scott, fino a Navid Negahban nel ruolo del paterno Sultano e Marwan Kenzari in quelli del perfido stregone Jafar. I volti di Aladdin di Guy Ritchie contribuiscono a donare carattere e spessore genuino ad una fiaba che, nel suo svolgimento e nelle sue note musicali (ri)adattate per l’occasione dall’otto volte premio Oscar Alan Menken, ha poco da raccontare di nuovo. A ravvivare la visione per i più nostalgici e ma anche per le nuovissime generazioni c’è un inedito Will Smith nei panni dello stravagante Genio della lampada; quando c’è lui in scena, con buona pace di tutti coloro che nei mesi passati hanno rigettato il casting dell’attore statunitense, il film assume i toni della commedia degli equivoci, elemento pressoché assente nel cartoon del 1992 ma che qui incornicia il film di Ritchie di prevedibili seppur graditi strascichi di adult content.
Seppur imprigionato nella stantia corazza dell’adattamento targato Disney e purissimo entertainment, questo nuovo Aladdin funziona egregiamente (ma in fondo lo faceva anche il titolo originale) quando si fa scanzonata commedia amorosa al ritmo di appariscenti coreografie e numeri musicali tutti da cantare e ballare (ma c’è anche una melodia female power tutta nuova). Ed in fondo non c’è proprio nulla di male.
VOTO: 6,5/10