Di Gabriele La Spina
Una serie che ha raccolto numerosi estimatori American Horror Story, fin dalla sua messa in onda dall’ormai lontano 2011, ma al contempo ne ha persi tanti. Poiché la serie antologica creata da Ryan Murphy, probabilmente la creazione più popolare del produttore e regista americano, tra le principali creazioni artefici del suo successo; ha offerto punti davvero alti di televisione ma anche sonori tonfi.
A partire dalla sua stagione d’esordio che vedeva come sfondo una casa, la Murder House, nella quale nel corso dei decenni sono accaduti diversi omicidi, che si manifestano sotto forma di poltergeist, disturbando il soggiorno della famiglia Harmon. Poi è stato il turno dell‘Asylum, definito il momento più alto della serie antologica, e in seguito quello della congrega di streghe per la terza stagione; criticata maggiormente dal pubblico alla sua messa in onda, visto che più che in passato American Horror Story mostrava una sorta di matrice camp, con una maggioranza di personaggi teenager, e un’alternanza di comicità e temibile violenza. La stagione fu però rivalutata con gli anni, divenendo, non solo un fenomeno virale anche nel web, generando diversi meme, ma tra le più iconiche della serie seppur mancante delle profondità che lo script delle prime due stagioni aveva già offerto. American Horror Story, fatto risaputo, ha da sempre giocato con gli stereotipi dell’horror, proponendo svariati cliché del genere, con delle storyline caratterizzate da una vena melò. L’efficacia dei primi due capitoli e l’iconicità scaturita in seguito dal terzo, sembra non replicarsi più; nonostante ottime idee, come una stagione di fatto remake del classico Freaks (1932), ovvero Freak Show, una che coniughi elementi dell’horror kubrickiano e quelli del cinema crime thriller di Fincher, come Hotel, l’esperimento tra il finto documentario e il found footage, ovvero Roanoke; di sicuro una prova di grande coraggio indiscutibile; e l’ibrido horror-politico Cult. Non si può rimproverare di certo lo showrunner Ryan Murphy e il suo staff per mancanza di idee, ma dell’efficacia nel realizzarle forse sì. American Horror Story, anno dopo anno, viene così chiamato a un ritorno ai vecchi fasti di un tempo, sia dai fan sia dalla critica, e quale miglior espediente se non quello di unire la stagione più solida della serie con la più iconica per il pubblico? È così che l’ottava stagione, dal titolo Apocalypse, coniuga Murder House e Coven.
Con il primo episodio dal titolo “The End”, la stagione si apre con lo scoppio di un’apocalisse, a seguito di una guerra nucleare. Vediamo così il parrucchiere Gallant e sua nonna Evie, aiutati dalla ricca Coco, che insieme alla sua assistente Mallory trova rifugio in un esclusivo, costoso, bunker. Qui si trovano sotto l’egida, o meglio, l’egemonia di Venable, una donna ossessionata dal colore viola, che soffre di una terribile scoliosi che la obbliga all’ausilio di un bastone, probabilmente un’emarginata fin dalla sua infanzia, che impone ferree regole agli abitanti, questa cerchia ristretta, che vuole sfuggire ai gas esterni che sembrano mutare irrimediabilmente chiunque ne entri a contatto. Ciò che vediamo non è nulla di mai visto prima d’ora in American Horror Story, anzi, è forse una delle più pigre storyline presentate; eppure rappresenta una sorpresa per lo spettatore. Si tratta infatti di un lungo preludio, dalla durata di 3 episodi, che scopriamo essere un flashforward, che ci porterà poi al vero inizio della stagione. Apocalypse inizierà dal quarto episodio “Could It Be… Satan?”, che percorrerà l’adolescenza, in modo più o meno esaustivo, di Michael Langdon (interpretato da
Cody Fern), l’anticristo nato nella Murder House dai coniugi Harmon, poi adottato da Constance. Una scelta originale? La divisione della stagione in due parti era già avvenuto in Roanoke, sesta stagione della serie, che da documentario su una casa infestata, diventava il dietro le quinte del documentario stesso a metà stagione; l’effetto sorpresa non è il medesimo, e il distacco settimanale tra un episodio all’altro di sicuro non aiuta il ritmo di questa lunga introduzione; che probabilmente avrebbe avuto più senso se la serie fosse stata già rilasciata per intero, in una piattaforma come Netflix, con conseguente binge watching da parte dello spettatore.
La stagione si trasforma dunque in un vero e proprio fan service: vediamo il ritorno delle amate streghe, dalla suprema in carica Cordelia Fox, a Myrtle Snow, per poi rivedere Misty Day, Zoe, Queenie e Madison Montgomery. Da questo punto di vista tutto funziona e diverte, nonostante i salti temporali fin troppo frequenti e a volte estenuanti, rendendo intangibile il concetto di tempo, la stagione diviene di fatto un sequel di Murder House e Coven; ciò che è accaduto quando abbiamo lasciato i nostri protagonisti e come le loro vite si sono incrociate. E in qualche modo convince poiché si tratta di personaggi parte della storia della serie, nonché i più riusciti, ma gli stessi personaggi sembrano aver perso smalto, ed essersi in qualche modo ammorbiditi; alcuni forse invecchiati per riprendere il medesimo ruolo o forse stanchi di vestire ancora quei panni, e quello stesso humor che aveva conquistato in Coven non sopravvive del tutto alla prova del tempo. Orfani dei personaggi negativi, dei villain, di fatto motore delle vicende della terza stagione, come Madame Delphine LaLaurie e Marie Laveau, che si concederanno però una fugace apparizione nell’episodio finale, ma soprattutto Fiona, interpretata dall’ormai dipartita anima della serie Jessica Lange. Il suo ritorno era in parte uno degli high light della stagione, e lo vediamo nel sesto episodio, “Return to Murder House”, dove lo spirito di Constance svela la vera identità di Michael a Madison e allo stregone Behold, come se ce ne fosse davvero bisogno, e in quello finale, chiudendo in qualche modo il cerchio dell’epopea di Langdon, e dimostrando che anche con un minino screen time, la Lange riesce ad essere una spanna sopra qualunque altro interprete del cast. È stato senza dubbio uno degli episodi più amati dagli spettatori di vecchia data della serie, da qualche anno a questa parte, tutto però risulta pura “fan fiction”, una sorta di contentino, più o meno necessario.
Trasformandosi in una sorta di battaglia dei sessi, tra le streghe della congrega, il cui bianco e puro idillio viene spezzato, e Michael Langdon; la stagione riesce a intrattenere a dovere come non accadeva da qualche anno, e a strappare più di un sorriso. Vi è un maggior investimento in location ed effetti speciali, non troppo ostentati, come non era avvenuto nella precedente Cult, dove l’azione si svolgeva di base tra la cantina del rivoluzionario Kai e la casa di Ally. E nonostante gli svariati salti temporali, stavolta tutto giunge a un punto, la sceneggiatura trova quasi sempre una risoluzione appropriata, anche se alla lunga risulta poco esaltante vedere gli stessi interpreti giostrarsi tra differenti ruoli. Vediamo infatti
Sarah Paulson vestire i panni di Billy Dean, Cordelia e Venable; mentre
Evan Peters addirittura quelli di Gallant, Tate, James March e Jeff, uno scienziato american idiot, dall’improbabile taglio di capelli che incrocia il suo cammino con quello di Michael, accendendo la miccia per l’apocalisse. Da qui si solleva il dubbio che quella che è stata una delle caratteristiche più originali di American Horror Story, ovvero il riutilizzo dello stesso cast per ogni stagione ma con differenti personaggi e differenti storie, inizi a sentire il peso del tempo dopo 8 anni; e soprattutto come utilizzare gli stessi per differenti ruoli all’interno di una stagione stessa, trend che è partito già da Hotel, possa essere a volte urtante per lo spettatore. Ma oltre ai “ricicli” non mancano di fatto nuovi personaggi e interpreti apprezzabili; la stagione mostra infatti all’inizio una congrega tutta al maschile di stregoni che darà asilo a Michael, e nel percorso di scoperta di quest’ultimo, anche una setta satanica, a tratti strampalata, dove vediamo le magnifiche
Sandra Bernhard e
Harriet Sansom Harris, due interpreti teatrali che riescono a dare spessore alla scena.
L’episodio finale dal titolo “Apocalypse Then”, riesce a dare il giusto climax alla stagione; con una lotta all’ultimo sangue, in bilico tra splatter e gore, e un monologo di tutto rispetto per Sarah Paulson nei panni di Cordelia. Ci viene concesso un happy ending, con tanto di abbracci strappa lacrime, e un cambio di rotta per la storyline generale della serie che farà la gioia dei fan più accaniti sempre impiegati nella costruzione di teorie e collegamenti. Eppure lascia l’amaro in bocca; perché una sceneggiatura più approfondita e meno raffazzonata avrebbe reso più giustizia al seguito delle storie di personaggi tanto rimasti nei cuori degli spettatori della serie; perché le new entry risultano sempre sottoutilizzate, giusto accennata e poco giustificata la storia del personaggio di Adina Porter, la nuova strega del vudu Dinah Stevens, e il ritorno di Angela Bassett meritava certo di più. Ma si perdona tutto ciò. Poiché American Horror Story non è mai nata come una serie che pretendesse di essere capolavoro del piccolo schermo o un alto esempio di cinema televisivo; eppure lo è stato a volte, ma lo spirito, quello di divertire tra omaggi e citazioni, no sense e situazioni trash, battute taglienti e lacrime, è rimasto invariato. E il coraggio, di certo, non manca mai.
VOTO: 7/10