Di Massimo Vozza
L’opera, che era stata inizialmente selezionata per Cannes e Telluride, racconta della realmente esistita paleontologa Mary Anning e della relazione intrapresa con la geologa Charlotte Murchison, presumibilmente avvenuta duranti gli anni quaranta dell’Ottocento. Lee si approccia alla vicenda, sulla quale storicamente sappiamo poco e niente, con un intento pressoché autoriale, in parte quindi disinteressato alla veridicità dell’affaire, agli elementi del classico biopic, con lo scopo di realizzare una personale rielaborazione che faccia rientrare il tutto in una poetica coerente a livello in primo luogo contenutistico ma poi anche formale, tanto che le due opere da lui firmate finiscono per combaciare su svariati aspetti (che per alcuni spettatori potrebbero perfino essere troppi). Il sapere chiaramente cosa e come raccontarlo è quindi l’arma a doppio taglio di questo nuovo cineasta: al di là del tema LGBTQ+, i leitmotiv di Francis Lee si confermano essere il lavoro, la sessualità e il desiderio, la malattia e il malessere, la solitudine e l’alienazione, dei quali è intriso il racconto e che vengono conseguentemente e coerentemente espressi sul piano estetico.
La regia e scrittura di Lee sono privi di filtri ogni qualvolta che gli viene data la possibilità di esserlo, sia nel linguaggio diretto quanto nel mostrare la nudità, lo sporco, facendo sentire spesso la presenza di una camera a mano che solo di rado cede a un immaginario dal gusto pittorico spesso utilizzato per i film in costume settecenteschi e ottocenteschi, anche indipendenti. Valorizzata è particolarmente la manualità, la quale in primis passa per il lavoro della Anning con i fossili ma anche in altre attività come il disegnare, il pulire, il suonare, il cucinare, e non solo: anche l’attrazione sessuale e il rapporto più in generale tra le due donne trovano riscontro sul piano visivo nelle mani, nel contatto, quando la tensione degli sguardi finisce con non bastare e deve trovare uno sfogo che è prima di tutto carnale, fisico, e solo secondariamente e parzialmente anche mentale, psicologico. L’avere svariate figure femminili ovviamente mette in gioco anche altre tematiche, come la maternità, la sorellanza, senza mai sviscerarle veramente, esattamente come sviscerato non viene davvero nulla durante l’intero film.
Non a caso la recitazione stessa punta principalmente al procedere per sottrazione con solo pochi momenti di sfogo per il dramma, davvero ben calibrati (come la colonna sonora relegata solo alle scene chiave) ma che potrebbero rendere complesso l’entrare pienamente in empatia con situazioni e personaggi. La bravura però delle sue interpreti è innegabile, soprattutto di Kate Winslet, vera e sola protagonista, capace di saper valorizzare i tanti silenzi (al massimo riempiti da rumori ambientali) con sguardi (e gesti) che bucano lo schermo e una presenza fisica che mai si perde nell’inquadratura, mentre Saoirse Ronan accompagna dignitosamente in un ruolo parzialmente inedito per lei, così come Fiona Shaw e Gemma Jones (quest’ultima in un ruolo similare a quello di La terra di Dio).
Ammonite insomma è un lavoro che, seppur oggettivamente non si possa non definire quantomeno dignitosissimo, probabilmente non aggiunge davvero nulla di diverso al cinema in costume e/o LGBTQ+, e neanche al cinema del suo stesso autore (qui però più consapevole delle sue scelte). Eppure chi ha scritto questa recensione da diversi giorni difficilmente è riuscito a pensare ad altro: in qualche modo mi è riuscito ad entrare nel cuore.
VOTO: 7,5/10
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