Di Massimo Vozza
In Italia, quest’anno, Belfast non sarà l’unico film diretto da Kenneth Branagh che uscirà nelle sale. Dopo essere stato rimandato svariate volte, ecco arrivare finalmente il sequel di Assassinio sull’Orient Express, tratto anch’esso ovviamente da un romanzo della più famosa giallista del mondo, Agatha Christie: Assassinio sul Nilo.
La precedente operazione del regista nordirlandese aveva lasciato gran parte dell’opinione pubblica perplessa nonostante il cast stellare, presente anche stavolta seppur, nel complesso, un po’ meno scintillante rispetto al precedente; a disorientare maggiormente fu, da una parte, l’approccio meno classico possibile adottato nei confronti del testo originario e, dall’altra, l’aver sotto certi aspetti snaturato l’iconico personaggio di Hercule Poirot interpretato da Branagh stesso. Entrambi tornano in continuità nel secondo film, compiendo perfino un passo ulteriore in avanti purtroppo a scapito della narrazione.
Non è necessario riportare fedelmente ogni singolo elemento di un romanzo quando si lavora alla sua trasposizione cinematografica ma è pur vero che i cambiamenti devono essere giustificati al pubblico e necessitano di rimanere perfettamente inseriti nella storia d’insieme, soprattutto se si tratta di un giallo dove è essenziale che tutto torni alla perfezione: passino quindi le divagazioni su razzismo e omosessualità, inseriti con lo scopo di comunicare con la realtà di oggi il maggiormente possibile, ma non invece un’intera parentesi sul passato di Poirot, soffermandosi sul rapporto con l’amore e l’esperienza in guerra la quale, in apertura e fotografata da un insensato bianco e nero, produce un senso di smarrimento negli occhi di chi guarda, come se si avesse sbagliato sala al cinema, e inoltre contrasta con ciò che accade successivamente (o comunque vi si incastra malamente).
La spiegazione di tutto questo è fuori dal testo filmico e riguarda l’ego del suo regista/attore: Kenneth Branagh approfitta di testi del genere per mettersi in mostra come fantomatico autore e non gli importa se questo va a scapito del resto: il suo Poirot deve emergere anche a costo di tagliare pezzi di storia essenziali per seguire le dinamiche del delitto che finiscono con l’accadere fuori campo e/o vengono totalmente eliminate, forzando così la plausibilità sulla riuscita del delitto da parte dell’artefice.
Sul piano visivo non soddisfa la ricostruzione dell’Egitto proposta sulla schermo, per colpa non solo degli effetti speciali e delle scenografie ma in primis di una fotografia pulitissima (tipica del suo direttore di lunga data, Haris Zambarloukos) che poco si addice a certe location, soprattutto se si è deciso di non girare veramente in quelle zone. Accompagnano una serie di movimenti di camera virtuosi quanto fini a loro stessi.
Assassinio sul Nilo di base è il tipico whodunit (e a parere di chi scrive uno dei migliori della Christie) ma cosa accade quando, nella sua versione cinematografica, lo sviluppo fa perdere interesse nel sapere chi l’ha fatto e i personaggi sospettati vengono trascurati in virtù dell’io del detective? Accade che si rilegge il romanzo oppure si rivede il primo adattamento risalente al 1978 che, nonostante delle libertà che si prese a sua volta (alcune anche copiate da Branagh), non aveva mai perso di vista i suoi personaggi interpretati da un grandissimo cast in stato di grazia e, in particolare, il delitto con le sue dinamiche e conseguenze.
VOTO: ★★