Di Simone Fabriziani
Asteroid City è il lungometeaggio dell’odi et amo per tutti i cultori del cinema dell’autore statunitense, che siano le fila dei fautori o quelle dei (tanti, sempre di più) detrattori. C’è chi asserisce che dopo l’exploit di pubblico e critica di Grand Budapest Hotel, Wes Anderson sia caduto trappola di un ammaliante incantesimo autoimpostosi dal suo accomodante linguaggio cinematografico, chi invece sostiene che semplicemente la poetica del cineasta si sia radicalizzata verso lidi, temi e contenuti di intima necessità per lo stesso regista, prima idolo di una certa fetta di pubblico hipster e progressista, adesso ostinatamente insulare.
E l’ultimo lungometraggio in arrivo nelle nostre sale il prossimo 28 settembre è proprio sintomatico di questa sua ultima deriva, nel bene e nel male. Eppure, nonostante l’opaca efficacia del precedente The French Dispatch, questo coralissimo Asteroid City trova la giusta chiave compromissoria per portare avanti un discorso contenutistico sul potere del racconto scritto, in ogni sua forma primigenia. Con French Dispatch aveva piegato volenterosamente le sue ossessioni visive per raccontare lo stato di salute di un piccolo distaccamento giornalistico americano in Francia con tanto di quadretti narrativi dedicati ad ogni articolo pubblicato; con Asteroid City, invece, Anderson insiste sulla metatestualità mettendo in scena un incontro ravvicinato del terzo tipo elegiaco e dal sapore nostalgico nato dalla mente geniale di un drammaturgo alle prese con la stesura della sua innovativa piéce teatrale: l’Asteroid City titolare, per l’appunto.
Un discorso (ed una riflessione), quella che fa Wes Anderson, sul prodigioso potere della parola scritta e delle forme d’arte ad essa profondamente legate: il giornalismo, il teatro e, presto in arrivo su Netflix con i suoi mediometraggi dedicati ad alcuni peculiari racconti di Roald Dahl, la letteratura per ragazzi con La meravigliosa storia di Henry Sugar. Il gran cast di ensemble che costella Asteroid City (e ci sono quasi tutti gli interpreti feticcio del regista americano) è solo accessorio medium narrativo per permettere al regista e sceneggiatore di portare agli estremi linguistici i suoi discorsi insulari sulla metatestalità del mezzo scritto, via sala cinematografica.
Prendere o lasciare anche questa volta con Wes Anderson, che quantomeno continua a portare avanti una poetica dalle linee visive certo riconoscibilissime anche ai più, ma che della sua ostinazione a non voler uscire dal proprio seminato ne fa un vanto ed un orgoglio ingenuo e personalissimo.
VOTO: ★★★★