Billy Lynn – Un giorno da eroe – La recensione

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 Di Daniele Ambrosini

Il nuovo film di Ang Lee dopo le critiche tutt’altro che lusinghiere ricevute al New York Film Festival era atteso al varco, soprattutto perchè all’inizio si pensava ad un ritorno in grande stile per il regista di Taiwan che, con un po’ di fortuna, avrebbe potuto trainare il suo Billy Lynn fino alla notte degli Oscar; così non è andata, e la curiosità di sapere perché e cosa realmente non funzionasse nel film era tanta.
Prima di tutto la trama: Billy Lynn è un soldato impegnato in una missione in Iraq che è stato accidentalmente ripreso durante un atto di eroismo che ha commosso gli Stati Uniti, perciò lui e tutta la sua squadra sono stati invitati a tornare per un tour della vittoria che termina nel giorno del ringraziamento ad una partita dei Dallas Cowboys. Già dalla trama è possibile capire come il film sprizzi “americanità” da tutti i pori, e non quel senso di orgoglio americano che aveva reso pienamente godibili film come Argo o Zero Dark Thirty, ma quel senso di stretta appartenenza e velata critica al trattamento riservato alle truppe espresso in un film ultraconservatore come American Sniper. Il film è così profondamente radicato in questa mentalità che ci si chiede come sia incappato Ang Lee in un progetto così americano.
Il discorso qui è ovviamente un po’ diverso: Clint Eastwood in American Sniper voleva denunciare lo stato di abbandono dei reduci una volta tornati negli States e l’inadeguatezza dello stato a provvedere ad offrire loro il giusto supporto, mentre il film di Ang Lee fa una critica alla radice, alle motivazioni che portano un diciannovenne ad arruolarsi e il suo sergente a non lasciarlo tornare indietro – forse perché la vita del soldato ormai lo ha cambiato – ma allo stesso tempo sembra gridare che siamo di fronte a dei personaggi dalla duplice faccia, sono persone normali ma allo stesso tempo sono eroi. Insomma il film sembra criticare ma quasi giustificare allo stesso tempo, lo stesso Billy Lynn nella vita reale è un perdente ma nell’esercito è un eroe nazionale, è difficile non cogliere un messaggio di questo tipo. A portare avanti questo discorso ci pensa una sceneggiatura piena di difetti, di cliché da manuale, di dialoghi scontati, di scelte ovvie e francamente discutibili come l’uso alternato e continuo dei flashback (un promemoria continuo di un disturbo post traumatico) ed addirittura una appassionata chiacchierata con un personaggio defunto.


Non dobbiamo tuttavia dimenticare che ci troviamo di fronte ad un film di un regista di grande talento che in passato ci ha abituati ad un’estetica raffinata, proprio per questo il lavoro svolto da Lee sulla regia è quantomeno bizzarro. In primis perché dopo le prodezze visive del precedente Vita di Pi, riesce a confezionare un film visivamente piatto e debole – coadiuvato dalla fotografia poco ispirata del due volte premio Oscar John Toll – e nonostante questo riesce comunque a creare il ritmo giusto per la pellicola, perché nonostante i difetti siano evidenti il film ha dei momenti altamente coinvolgenti, grazie soprattutto all’equilibrio della parte centrale che bilancia un prologo sottotono ed un epilogo discutibile. Tra gli aspetti più discutibili della regia sicuramente le soggettive, nessun film da anni usava le soggettive in modo così brutto, potrete perdonare tutto alla regia di Lee ma non le bruttissime soggettive in primo piano. Il fatto che il film si svolga in una sola giornata, la ricercata
(ma fallimentare) semplicità della fotografia e le inquadrature utilizzate fanno pensare
di trovarci di fronte all’ennesimo tentativo di imitazione di Linklater
malriuscito.
L’unico elemento positivo a cui si può contestare poco o niente all’interno del film è sicuramente Kristen Stewart, che in mezzo ad un cast particolarmente poco convincente riesce a brillare e a fare molto bene, la Stewart ha largamente dimostrato di essere una brava attrice, ora aspetta solo il ruolo giusto per imporsi. A parte il giovane Joe Alwyn, che non è poi così male, gli altri interpreti sono al limite del disastroso: Garrett Hedlund è terribilmente forzato mentre sia Vin Diesel che Steve Martin sono fuori parte e poco credibili. 
Ang Lee firma uno dei suoi film peggiori, profondamente radicato in un ideale americano ambivalente di critica e di esaltazione, che nonostante non sia a livelli pessimi è comunque pienamente dimenticabile. Passiamo oltre.

VOTO: 5/10