Bussano alla porta – La recensione del nuovo film di M. Night Shyamalan

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Di Simone Fabriziani

La piccola Wen, adottata dalla coppia formata da Eric e Andrew si appresta a una gioiosa vacanza in una baita in mezzo al bosco quando viene avvicinata da un uomo inquietante. In seguito un quartetto di persone irrompe nella baita con la forza e, dopo una breve e inutile colluttazione, immobilizza i due genitori di Wen e comunica loro di essere lì perché guidati da una visione: la loro famiglia è stata scelta per prendere una decisione molto difficile, una decisione dalla quale dipenderanno le sorti del mondo. Così inizia Bussano alla porta, nuova fatica dietro la macchina da presa per M. Night Shyamalan, che non tornava nelle sale in veste di regista dal sottovalutato Old del 2021.

Ancora una volta un adattamento per il cineasta di origini indiane, stavolta alle prese con l’insidiosa trasposizione del romanzo “La casa alla fine del mondo” di Paul Tremblay. Per portare sul grande schermo l’ambiziosa e provocatoria visione delle società contemporanea dello scrittore statunitense, Shyamalan assembla un cast eterogeneo che si presta con divertimento e naturalezza alla messa in scena del lungometraggio apocalittico: su tutti, l’inedita coppia formata da Eric ed Andrew interpretata da Jonathan Groff e Ben Aldridge, fino ai “quattro dell’Apocalisse” capitanati da Dave Bautista e da un insospettabilmente istrionico Rupert Grint (che pure con Shyamalan, ha già collaborato nella serie Apple “Servant”); tutti al servizio di un racconto cinematografico tra la fantascienza e l’horror che deve molta della sua forza drammaturgica al suo impianto smaccatamente teatrale.

Difatti, buona parte della narrazione di Bussano alla porta consta di un setting unico, diviso tra l’esterno della baita di Eric ed Andrew e l’interno dell’abitazione nei boschi; un time and space particolarmente claustrofobico che pare, per l’appunto, uscito da una piéce teatrale post-moderna e controriformista, ambientazione perfetta per riportare sul grande schermo le istanze apocalittiche e finaliste che lo scrittore Tremblay affida al mezzo cinematografico. Attuando però una sostanziosa differenziazione dal romanzo, M. Night Shyamalan realizza un adattamento lontano dal finale dell’opera letteraria e più vicino alla sensibilità artistica e ai grandi temi affrontati precedentemente dal regista.

Con Bussano alla porta, M. Night Shyamalan affida alla sua peculiare visione cinematografica il lungometraggio più vicino alla filosofia umanistica che aveva già  ampiamente affrontato in titoli come Signs e The Village. Come nelle due pellicole, anche qui il cineasta statunitense firma un pamphlet per grande schermo (e per camera unica) sulla forza dell’amore universale, sulla speranza e sul valore inscindibile della famiglia come baluardo degli ultimi scampoli di umanità, anche di fronte alla fine del mondo stesso.
Tutte suggestioni che Shyamalan aveva magistralmente regalato al suo vasto pubblico di aficionados confezionandole con uno splendido pacchetto da cinema di genere, e che con Bussano alla porta ancora una volta si conferma cornice ideale per raccontare al cinema stilemi ed ossessioni del suo autore. Che alle prese, di nuovo, con un una stuzzicante narrazione fanta-orrorifica, dimostra di essere maestro contemporaneo di un cinema di genere lontanissimo dalle aspettative del pubblico generalista, che non vuole testardamente scendere a compromessi né con le fonti letterarie da cui decide di trarre le sue pellicole e né con lo studio system attuale.

Bussano alla porta arriva nelle sale italiane con Universal Pictures a partire da giovedì 2 febbraio.

VOTO: ★★★


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