Carne y Arena – La recensione del corto in realtà virtuale di Alejandro G. Iñárritu

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Di Edoardo Intonti
Carne y Arena è il rivoluzionario progetto ad opera del regista Alejandro G. Iñárritu e del fidato collaboratore Emmanuel Lubezki, presentato qualche settimana fa al 70° Festival di Cannes, oggi disponibile nella sua versione integrale presso la fondazione Prada di Milano.


Si tratta di un’istallazione artistica di realtà virtuale, mezzo sempre più utilizzato per fondere realtà e finzione (in particolar modo nel campo videoludico), in questo caso in una declinazione a scopo fortemente sociale, permettendo allo spettatore di sperimentare, per circa 7 minuti, l’esperienza di un migrante clandestino nel tentativo di raggiungere gli Stati Uniti.


L’opera lavora su due livelli:
Quello emotivo: ovvero quello che percepiamo in quel momento, a livello di esperienza personale legato al nostro bagaglio di esperienze, la nostra impressionabilità  e la nostra sensibilità sull’argomento (molte persone hanno preferito interrompere l’esperienza pochi minuti dopo l’inizio), Quest’ultimo è probabilmente quello che il regista si presupponeva di rendere predominante nell’animo degli spettatori, chiamati non solo a vivere un’esperienza unica, ma uscirne con un punto di vista più consapevole su un argomento quanto mai attuale in Italia quanto che in America.
E poi su un’aspetto decisamente più oggettivo, ovvero quello cinematografico: ovvero ciò che possiamo vedere ricreato interamente in digitale sul modello di persone e luoghi reali e che con le quali, grazie alla tecnologia, ci è permesso permette interagire, puntando il nostro sguardo/cinepresa,  o muovendoci in un’ambiente 3D sapientemente ricreato. 
Come dei narratori onniscienti, siamo presenti al centro dell’azione, seppure esterni, potendo decidere deliberatamente su cosa porre l’attenzione per la durata dell’esposizione, garantendo ogni volta (e per ogni spettatore) un’esperienza diversa, ma che con un finale  comune e particolarmente sconvolgente, finisce per renderci parte integrante della storia.
Un lavoro sicuramente visionario e sperimentale, che potrebbe significare una delle possibili declinazioni del cinema del futuro: storytelling costruito attorno allo spettatore, interattività e rivoluzione nella figura professionale del regista, e della maggior parte delle figure centrali professionali del campo cinematografico.
Un’esperienza assolutamente unica, personale e raccomandabile a non solo a persone da una certa attenzione politica, ma anche a gli ammiratori del cinema sperimentale moderno.
VOTO: 10/10