Di Gabriele La Spina
È il 26 aprile del 1986 e sono le ore 1:23, una donna dalla folta chioma d’orata si alza dal suo letto, ancora assonnata dopo aver sentito uno strano rumore, si avvicina alla finestra e in lontananza scorge un bagliore e del fumo: proviene dalla centrale nucleare della sua città, Chernobyl. Attraverso gli occhi di una civile qualunque, che poi rappresenterà in qualche modo il cuore pulsante della serie, Johan Renck introduce uno degli eventi più angoscianti e drammatici dell’umanità.
Renck, che alle sue spalle vanta la regia di episodi televisivi di alcuni dei più grandi successi degli ultimi anni, da Breaking Bad a The Walking Dead, da Vikings a Bloodline e Bates Motel; firma la regia di tutti e cinque gli episodi della miniserie, che oscilla da toni macabri a estremamente drammatici. Aprire la serie con la morte di uno dei personaggi cardine delle vicende di Chernobyl, e poi mostrare le prime vicende dell’agghiacciante fatto attraverso gli occhi dei civili, è una scelta tensiva per cui azzeccata da parte dello sceneggiatore Craig Mazin, che non avrebbe reso tanto senza la capacità asciutta, a volte quasi dallo stile indie, di Renck. Mazin, non altro che il creatore della serie, è uno di quegli imprevedibili sceneggiatori, finora conosciuto per sole commedie di stampo americano, come Scary Movie 3 e Una notte da leoni, seppure riusciti nel loro genere, da cui mai ti aspetteresti un prodotto di tale precisione e umanità.
La nazione Russa, la sua cultura, le sue contraddizioni, e soprattutto le sue bugie (parole chiave specie per il finale della serie), viene ritratta in questo episodio, che già conoscevamo attraverso numerosi documentari già prodotti in passato, ma che mai abbiamo osservato in prima persona prima d’ora. L’esplosione della centrale nucleare quella fatidica notte, porterà a conseguenze estreme, numerosi morti e ovviamente vite sconvolte; eppure sarebbe potuta andare peggio, se non fosse stato per tre eroi silenziosi.
In Chernobyl vestiamo in qualche modo i panni di Valery Legasov, interpretato a un Jared Harris forse alla più importante performance della sua carriera, un uomo che cambiò il mondo dell’industria nucleare dopo i fatti accaduti, scavando affondo in ciò che portò al disastro, ristabilendo i criteri di sicurezza; nonostante le sue accuse di negligenza alla sua stessa nazione porteranno, come vediamo, a un epilogo opprimente. Accanto a lui vi era Boris Shcherbina, interpretato da un ottimo Stellan Skarsgard, politico che si addentrò e affiancò lo scienziato, dal piglio autoritario, che finisce per umanizzarsi a contatto con tanta devastazione, e trovandosi faccia a faccia con la morte. Mazin fa poi una scelta imprevedibile nella sua sceneggiatura, inventando un personaggio femminile, insesistende nei fatti storici, che starebbe a rappresentare tutti gli altri studiosi e lavoratori che contribuirono ad evitare un secondo disastro dopo l’esplosione, poiché come vediamo se Legasov e i suoi compagni non sarebbero accorsi al recupero della centrale, le conseguenze sarebbero state anche peggiori. Il personaggio è quello di Ulana Khomyuk, che ha le sembianze di Emily Watson, ed è apprezzabile che si tratti di un personaggio femminile, che poi nel secondo episodio salva i protagonisti da una seconda esplosione facendo notare la presenza di acqua nella centrale; quasi evidenziando come, oltre agli operai, ai minatori e ai vigili del fuoco che hanno dato la vita dopo il disastro; anche donne, non solo infermiere, hanno dato le loro menti.
Se nel primo episodio, che come titolo riporta proprio l’ora esatta dell’esplosione “1:23:45”, assistiamo ai primi frangenti del disastro, con la gente totalmente ignara di ciò che è accaduto e il governo che cerca di minimizzare i fatti; di una potenza immane è la sequenza del ponte dove diverse persone ammirano l’alone lucente creatosi nel cielo dopo l’esplosione e dei bambini danzano sotto la pioggia di scorie radioattive che cadono dal cielo; nei tre seguenti episodi assistiamo alle fasi cruciali per contenere il disastro e gli enormi sacrifici. Seguiamo le storyline dedicate ai tre eroi di Chernobyl, ma anche qualcuna dedicata ai civili; quasi in sordina si sviluppa quella della donna che apre la serie, Lyudmilla Ignatenko interpretata da Jessie Buckley, personaggio realmente esistito che vive una storia d’amore sofferta, con il compagno vigile del fuoco che quella notte soccorse la centrale, destinato a perdere pian piano la sua vita nei giorni seguenti a causa delle potenti radiazioni; lei è la protagonista di una sequenza delle più straziante, la sepoltura del compagno. L’episodio finale della serie acquista invece un carattere processuale; ricorderemo ottime produzioni recenti sul genere nel formato miniserie, basti pensare a Il caso O.J. Simpson, prima stagione della serie antologica American Crime Story; tuttavia Chernobyl ci regala un episodio meno ingenuo della produzione di Ryan Murphy. Qui vediamo, attraverso la ricostruzione di Legasov, cosa è realmente accaduto, grazie alle indagini seguite dall’immaginaria Khomyuk; si materializza ciò che ha portato all’esplosione. Il cerchio si chiude, la storia è stata cambiata per sempre, e le vite dei protagonisti segnate irrimediabilmente.
Ad oggi la serie con la valutazione più alta di sempre su IMDb, un risonante 9,7 su 10, Chernobyl è una produzione di rara solidità; grazie a una sceneggiatura capace non solo di impartire a uno spettatore qualunque le nozioni più basilari della fisica nucleare, ma di ricostruire senza sbavature un evento che ancora oggi ha sollevato forti perplessità. Ne risulta una serie di carrattere storico-biografico, ma sorprendentemente horror, poiché nulla è più spaventoso della realtà stessa, e dalla drammaticità mai eccessiva, degna del più poetico dei neoralisti. Con un risultato simile, si spera in un ulteriore capitolo di quella che potrebbe essere una sorta di docufiction d’autore per HBO, ben più elevata della lunga serie di docuserie di Netflix, più di spessore delle produzioni crime di Fox. Sperando in una collaborazione ulteriore del duo Mazin-Renck.
VOTO: 9.5/10