Euphoria – La recensione della sorprendente serie HBO con Zendaya

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Di Daniele Ambrosini

Euphoria è uno strano oggetto nel panorama televisivo contemporaneo. Ha il sapore di una serie teen, ma allo stesso tempo è qualcosa di diverso, di più maturo, verrebbe da dire proprio adulto per via dello sguardo disilluso, quasi cinico che governa la narrazione. Senza dubbio si tratta di una delle più gradite sorprese dell’ultima annata televisiva, oltre che della conferma dell’enorme talento del suo autore, quel Sam Levinson il cui secondo film, Assassination Nation, pur essendo una delle opere più feroci e significative del periodo Me Too, era passato pressoché inosservato al momento della sua uscita in sala.

Euphoria è una serie sugli adolescenti che gioca con i cliché del genere teen in ogni modo possibile, che non ha paura di scendere nel melodrammatico e di miscelare il tutto con un tocco di soap, ma allo stesso tempo è una serie che rielabora in maniera moderna, schiettissima e quanto mai necessaria temi, storie e sentimenti comuni che definiscono l’adolescenza per quel che effettivamente è, un periodo di passaggio e d’indecisione, per niente glamour, a tratti sporco, estremamente deludente, ma pieno, pieno di verità, per quanto scomoda o sgradevole. E proprio per questo, per il suo sguardo privo di fronzoli e di romanticismo di sorta, che restituisce un tangibile senso di realtà ad un periodo della vita solitamente troppo idealizzato, trattato come materia distante, che Euphoria si innalza al di sopra di qualunque altro dramma televisivo che abbia affrontato gli stessi temi. Perché sotto le luci colorate, gli eleganti movimenti di camera, c’è qualcosa di marcio, di sgradevole, e Sam Levinson non ha paura di raccontarlo per quello che è, anzi, vuole farlo.

Ma ciò che rende Euphoria davvero potente, al di là del discorso sull’adolescenza, è la sua universalità. Ogni personaggio della serie ha la sua dose di passato da metabolizzare, di problemi da affrontare e una lunga strada da percorrere davanti a sé, ogni personaggio ha le sue ferite ed Euphoria è tutta incentrata su di esse, sui traumi che ogni essere umano prima o poi subisce ed è chiamato ad affrontare. E qui c’è anche un po’ della forza politica della serie, perché la dimensione del trauma deriva dal semplice fatto di far parte di una società e di non poterne sfuggire. La società, così come dipinta da Levinson, è all’apparenza desolante, ma in realtà non è l’ambiente intorno ai personaggi ad avere connotazioni positive o negative, è l’agire collettivo che ne deteriora la percezione, e più la narrazione va avanti più questo diventa evidente. Non è il mondo nel quale i personaggi si muovono ad essere buono o cattivo, non è la tecnologia a limitare il contatto umano, Euphoria non punta mai il dito contro niente e nessuno, come è giusto che sia, si limita a narrare, a mostrarci come ogni azione di un singolo si rifletta sulla società, come le azioni di una persona possano danneggiarne un’altra, come un trauma possa generare un nuovo trauma. Come niente sia privo di conseguenze. Quella di Euphoria è una società 2.0 spaventosamente simile alla realtà, in cui la dimensione privata è praticamente inesistente.

Ogni episodio (escluso il finale) ha un prologo dedicato ad uno dei personaggi principali della serie, che ne sviscera il pregresso in maniera quasi invadente, analizzandone non solo gli aspetti più privati, ma talvolta addirittura i pensieri. Una sorta di narratore onnisciente, facilmente identificabile in Levinson, che però ha la voce di Rue, la protagonista interpretata da Zendaya. Una scelta coraggiosa che non pone il personaggio su un piano diverso rispetto agli altri in quanto a controllo e conoscenza sulla narrazione, ma è semplicemente un escamotage che esplicita il suo bisogno di porsi delle domande e di comprendere il mondo che la circonda, e che sottolinea quel senso di assenza di una dimensione privata che caratterizza la narrazione quasi invasiva della serie.

Come in Assassination Nation, l’atmosfera che si respira è rarefatta, il mood è teso e la componente visiva estremamente studiata, quasi al punto da risultare innaturale. Come un Anderson al contrario, Levinson gioca per contrasto, costruendo un impianto visivo glamour, ultra patinato, colorato, ma allo stesso tempo estremamente stilizzato, dove i movimenti di camera sono precisi al millimetro e dove, nonostante le inquadrature strette e la costante vicinanza fisica ai personaggi, tutto appare distante. Euphoria ha un mood molto particolare, molto preciso, in grado di riflettere questo senso di distanza attraverso una messa in scena, fredda, a tratti gelida. Lo sguardo di Levinson, quella componente personalissima che caratterizza il suo stile, è un po’ così, freddo ed estremamente cinico, disilluso. Ciò che ad Euphoria manca rispetto ad Assassination Nation è la redenzione, o almeno la possibilità di una redenzione. Il suo revenge movie si muoveva più o meno sulle stesse premesse a livello di società e di mondo che circa i personaggi, ma lì la consapevolezza di poter influenzare quel mondo con le proprie azioni, di poter essere artefici di una qualche forma di cambiamento, di scontrarsi con il mondo, era il punto di arrivo, qui questa componente è assente. Forse perché tutti i personaggi stanno, consapevolmente o meno, affrontando un percorso di guarigione e nessuno di loro è ancora in grado di reagire adeguatamente, forse perché lo sguardo di Levinson si è evoluto ed è diventato ancora più cinico, arrivando a diventare semplice osservatore di quei meccanismi che lui stesso ha innescato, senza volerli davvero risolvere, senza voler giustificare, salvare o redimere nessuno, senza applicare nessuna morale o giudizio.

Ciò che muove davvero la narrazione di Euphoria è la rabbia. Quasi tutti i personaggi sono profondamente, a volte anche inconsciamente, arrabbiati con quel mondo, quella società che esercita su di loro una enorme pressione, che loro stessi, con le loro azioni, contribuiscono ad aumentare, una rabbia dettata dall’impossibilità di comprendere il proprio trauma e di reagire, di affrontare il mondo ed, eventualmente, redimersi. In Assassination Nation succedeva una cosa simile, solo che lì la rabbia ad un certo punto esplodeva e diventava orrore, qui è una forza che logora tutti quanti da dentro, è sottaciuta, non è manifesta, e proprio per questo è imprevedibile.

Euphoria è una serie bellissima perché fa paura, nel senso buono del termine. Perché al di là della superficie, fatta di sesso, droga, amori adolescenziali e quant’altro, è uno show che parla di come ci rapportiamo agli altri, alla società, di come contribuiamo a rovinarla, parla di come affrontiamo il nostro pregresso e di come ci rapportiamo al futuro, parla della difficoltà dell’essere fragili e arrabbiati. Parla di come trovare una propria, personale, dimensione umana in un mondo che così opprimente da riuscire quasi a eliminare il concetto di privacy. Euphoria parla della nostra società portando agli estremi certi meccanismi, ma senza renderli meno reali. Sotto questo punto di vista, anziché di sguardo cinico, come abbiamo fatto finora, dovremmo parlare di uno sguardo estremamente lucido, così lucido da far paura.

Ad arricchire la serie ci sono le incredibili performance di una Zendaya in odore di Emmy e di un cast giovanissimo composto da Maude Apatow, Alexa Demie, Barbie Ferreira, Storm Reid, Algee Smith, la lanciatissima Sydney Sweeney, la sorprendente Hunter Schafer ed il glaciale Jacob Elordi. Dietro la macchina da presa, invece, troviamo Levinson per cinque degli otto episodi che compongono la serie (tutti scritti da lui), mentre i restanti tre episodi sono stati affidati a Augustine Frizzell (Never Goin’ Back), Jennifer Morrison (Sun Dogs) e Pippa Blanco (Share), tutte registe indipendenti emergenti il cui film d’esordio è uscito nel corso dell’ultimo anno, il futuro dell’indie americano. È grazie a loro se la serie ha tutto l’aspetto di un film d’autore, e, in una certa misura, grazie alla fiducia che HBO ha riposto nel progetto, ne ha anche la libertà. Perché è innegabile che per essere un prodotto televisivo Euphoria si prenda numerosi rischi e si conceda di osare.

Bisogna poi dire che Euphoria coglie perfettamente lo spirito dei suoi tempi e del mondo che sta raccontando, è un ritratto tempestivo, incredibilmente accurato di quello che sembra essere il sentire comune delle nuove generazioni, c’è quel mix di tristezza, negatività, e macabra ironia che sembra uscito da una canzone di Billie Eilish. E dovendo azzardare il paragone Euphoria è un po’ come una canzone di Billie Eilish, dark, seriosa, a tratti troppo matura per la sua età, ma in definitiva estremamente accattivante, pop, disturbante nella migliore della accezioni possibili e universalmente riconoscibile, unica. Sebbene tutto sia rielaborato secondo una lente, una visione specifica piuttosto marcata, Euphoria è una serie fortemente legata al presente, è la serie perfetta per il 2019, e sicuramente continuerà ad essere rilevante e spaventosamente attuale pure nei prossimi anni.

VOTO: 9/10



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