Di Massimo Vozza
Tra i titoli presentati durante la scorsa stagione cinematografica, segnata dalla pandemia, vi è Falling, l’opera prima di Viggo Mortensen. L’attore consacrato da Il signore degli anelli, saga di successo diretta da Peter Jackson, vanta una filmografia di tutto rispetto con vari registi di spessore e pluripremiati (la più degna di nota è forse la sua collaborazione con Cronenberg), quindi non si può dire che non gli mancasse l’esperienza per passare anche dietro la macchina da presa. Eppure molte cose non hanno funzionato in questo suo debutto.
La più evidente e probabile causa di tutte le altre è la pretesa autoriale: Mortensen non ha solo diretto ma anche interpretato, scritto e prodotto Falling, nonché ne ha firmato la colonna sonora. Ne è risultato che nessuno di questi aspetti raggiunge un livello più che accettabile durante la visione del lavoro ultimato: la recitazione, il terreno di gioco maggiormente familiare a Mortensen, è sottotono e, seppur il regista abbia una carriera musicale di lungo termine, il livello delle composizioni a malapena passabile, in quanto banale, ripetitivo e a volte quasi ingombrante.
La cura estetica del film è talvolta pretenziosa, come se volesse macchinosamente caricarsi di significati reconditi, di una valenza metaforica, forzando il materiale di partenza, ossia la sceneggiatura, la quale in realtà non si presta a tale operazione, non tanto per i contenuti quanto per lo sviluppo.
Nel raccontare il rapporto tra padre e figlio al centro della narrazione, Mortensen probabilmente ha attinto a esperienze personali (su sua ammissione, alcune scene si rifanno totalmente a episodi da lui vissuti in giovinezza) eppure il film risulta freddo, scostante, quasi fastidioso, a causa soprattutto del personaggio del padre, interpretato da Lance Henriksen: il divario generazionale tra i due è sicuramente uno dei motori di Falling ma l’aver caricato il personaggio del vecchio di tutto ciò che è negativo, soprattutto visto con gli occhi di oggi, di quella generazione, rende impossibile qualunque tentativo di provare empatia; ad esempio, il padre si confronta (per così dire) in più occasioni con l’omosessualità del figlio, la quale sembra essere stata cucita sul personaggio solo appunto per evidenziare queste differenze e accentuare i contrasti tra i due, tanto per avere qualcosa da raccontare.
Inoltre vi è anche un uso non ispirato dei flashback e la mancanza di ritmo mette alla prova gli occhi dei più stanchi.
Sapendo che il film ha avuto enormi problemi di budget e che Mortensen ha lavorato non solo gratuitamente ma anche mettendoci sopra i propri soldi, vorremmo poter dire qualcosa di positivo e riconoscere di aver un minimo intravisto le motivazioni che l’hanno spinto a imbarcarsi in questa impresa ma davvero ci risulta difficile: a parte il fatto che, dopo quasi due ore, Falling finalmente finisce.
VOTO: ★★