Di Gabriele La Spina
Divenuto famoso tra la critica americana con il sensazionale horror Kill List, Ben Wheatley si è distinto negli ultimi anni come regista meno conforme agli stili hollywoodiani e capace di saper reinventare nel modus operandi, generi probabilmente usurati. È il caso di Free Fire, produzione firmata da Martin Scorsese, che tanto ha da ringraziare al regista di Quei bravi ragazzi, ma che il pubblico novizio potrebbe riconoscere come una versione più asciutta e secca di un film di Quentin Tarantino, quello di Pulp Fiction e Le Iene. Paragone azzardato forse, ma non inappropriato.
Un magazzino abbandonato nel Massachusetts, alla fine degli anni ’70, fa da sfondo all’incontro tra due irlandesi, Frank e Chris, insieme all’intermediatrice americana Justine, e la gang guidata da Vernon e Ord, per l’acquisto di armi. Nonostante la discrepanza tra ciò che è stato ordinato e ciò che viene consegnato, l’affare va in porto con tanto di pagamento quando, poco dopo, Stevo, il cognato di Frank rimasto fuori dall’edificio, vede Harry, uno degli uomini di Vernon: i due hanno dei conti in sospeso e da un momento all’altro iniziano a sparare indistintamente. Ma ogni pallottola segue una battuta, ogni ferita all’arto una frecciatina, la sceneggiatura di Wheatley, scritta a quattro mani con la fedele Amy Jump, rivela delle venature da dark comedy inaspettate, ma ciò che maggiormente colpisce è la caratterizzazione di ogni personaggio in modo estremamente distinto e curato. Abbiamo il leader, la bambola, il bello, la volpe, il tardo, l’anziano, il tossico; Cillian Murphy, Brie Larson, Armie Hammer, Sharito Copley, Noah Taylor, Michael Smiley e Sam Riley, contribuiscono tutti egualmente come orchestrali alla riuscita del concerto di Wheatley, trasformandosi ognuno in un vero character actor. Ma se la Larson, vincitrice dell’Oscar per Room, risulta leggermente sottotono rispetto all’eccentrico cast; nonostante le venga affidato il ruolo chiave per il finale della pellicola, è Hammer a sorprendere per vena ironica e mimetismo, nel ruolo del regale Org, con a fianco un sempre ottimo Murphy, il leader Chris, e Copley, il furfante sui generis Vernon.
Ma il botta e risposta tra gli attori, è un semplice elemento di Free Fire, dove la dinamicità dell’immagine, e gli scatti della camera di Wheatley, estremamente cinetica, accompagnati dall’estrema tensione del ritrovarsi immersi in una quasi infinita sparatoria, dona un quid in più all’estetica pulp e da gangster movie rubata ai maestri italo-americani del cinema hollywoodiano. E l’aspetto fortemente ironico del racconto di Whetaley si riflette anche nella scelta della colonna sonora, che nella ricostruzione del periodo degli anni ’70 sarebbe potuta ricadere nelle scelte più banali, mentre al contrario viene firmata da cantautori come John Fogerty e John Denver, quest’ultimo artista prediletto del personaggio di Org, insieme a un’originale ritmica degli spari degli stessi personaggi.
L’America vive oggi il flagello delle armi, di sparatorie e dunque stragi, ma Free Fire non ne è l’esaltazione, ne esorcizza infatti il mito, lo sminuisce con sarcasmo e ne analizza gli usi. Infatti il regista, oltre a essere stato influenzato dai fatti di cronaca frequentissimi negli USA, ha seguito un’accurata ricerca attraverso le trascrizioni di numerose sparatorie tra bande rivali e rapporti di balistica. Con il suo film Wheatley punta su pochi semplici concetti, quanto letali, e fa colpo, realizzando sia un omaggio ai classici del genere, sia una reinterpretazione di questo, con un’impronta assolutamente unica. Nel suo finale Free Fire espone la sua vena fortemente femminista, oltre alla mera natura distruttiva dell’uomo, Justine, apparentemente la più debole, brava solo con le parole e meno con le pallottole, batte ogni agguerrito malvivente delle due gang al loro stesso gioco, ma non si rivela migliore di loro: siamo quindi tutti uguali in uno scontro di pura violenza. E da femminista il suo significato diventa di equità.
VOTO: 9/10