Ghost in the Shell – La recensione

Seguici anche su:
Pin Share

Di Simone Fabriziani

I precedenti imprescindibili del Ghost in the Shell diretto da Rupert Sanders e in uscita giovedì 30 Marzo nelle nostre sale sono il manga di riferimento scritto da Masamune Shirow e il capolavoro d’animazione del 1995 dal titolo omonimo diretto dal maestro giapponese Mamoru Oshii. L’abbacinante racconto sui pericoli della cibernetica e della sempre più dilagante intelligenza artificiale perde linfa vitale e appeal nel remake statunitense con protagonista Scarlett Johansson

Quando l’androide da combattimento “Major” inizia a constatare dei temporanei glitch ed interferenze nel suo spettro visivo, inizia a chiedersi se non abbia più di un punto in comunione con gli esseri umani; che la misteriosa Hanka Robotics le stia nascondendo più di un segreto sulla sua origine? E chi è il pericoloso Kuze che sembra minacciare l’operato cibernetico della corporazione? Un semplice terrorista qualcosa in più?

Lontano anni luce dalla portata rivoluzionaria ed esplosiva del manga originario e del conseguente anime degli anni ’90, Ghost in the Shell pone nuovamente lo spettatore più smaliziato del nuovo millennio di fronte all’eterna, eppure sempre pregnante dicotomia tra intelligenza umana ed artificiale, tra emozione e simulazione del sentimento. Ma se nell’opera originale si era più vicini alle lacerazioni interiori degli androidi umani, troppo umani del Blade Runner di Philip K. Dick, qui tira invece aria di inaspettata sfiducia verso la cibernetica.
Solo superficialmente tacciato di operazioni di “whitewashing” rispetto alla pellicola giapponese del 1995, il film di Sanders si prende la, pur rispettabile, briga di ricreare alla perfezione un ambiente visivamente abbagliante ed uggioso chiaramente ispirato a suggestioni occidentali ed asiatiche degne del futuristico manga di Shirow, ma non affonda le zanne quando invece dovrebbe rielaborare e riproporre ad un pubblico non più vergine di innesti artificiali e di menti cibernetiche sul grande schermo (e la celeberrima saga di Matrix debuttò nelle sale quattro anni dopo l’anime di Oshii), risultando nell’ennesima, discreta confezione hollywoodiana di remake di successo di cui il bisogno, francamente, non se ne sentiva a patto di un maggior coraggio da parte degli autori.
Ottimo il cast di contorno che annovera un ritrovato Michael Pitt, il premio Oscar Juliette Binoche, sempre più a suo agio in progetti high e low budget internazionali, e “Beat” Takeshi Kitano, forse il maggior cineasta giapponese vivente che qui sveste i panni del regista e si appropria momentaneamente del miglior personaggio nel film di Sanders. 

VOTO: 6/10