Di Daniele Ambrosini
Abbiamo visto in anteprima la prima metà della prima stagione di Hill House, la nuova serie horror di Netflix creata da Mike Flanagan, già dietro la macchina da presa per il colosso dello streaming per Il gioco di Gerald e regista annunciato del sequel di Shining intitolato Doctor Sleep. Da molti definita come la prima vera serie horror mai prodotta, questa nuova aggiunta al catalogo Netflix è in realtà ben distante dall’essere una serie completamente riuscita ed è ostacolata da numerose scelte registiche e narrative poco efficaci.
Basata sul romanzo “L’incubo di Hill House”, del quale non mantiene la struttura, la serie racconta la storia di una famiglia che anni dopo la sua permanenza nella omonima tenuta rielabora le conseguenze di quella permanenza, creando un interessante parallelo tra due linee temporali che solo con il progredire del tempo iniziano a mostrarsi interconnesse.
Hill House assomiglia ad un horror indipendente di quelli che non sfigurerebbero affatto nel catalogo della Blumhouse, ne ha tutto l’aspetto ma non ne ha i tempi. Hill House gioca molto sull’estensione temporale, è uno slow burn che non scopre da subito tutte le sue carte, è una serie che costruisce la sua storia molto lentamente, un pezzetto alla volta e se all’inizio questo può sembrare interessante, dopo un paio di episodi l’eccessiva lentezza con cui viene portata avanti la narrazione e la sua frammentazione in piccole storie a sé stanti risulta deleteria. Infatti guardare Hill House è un po’ un atto di fede, si aspetta che la serie cresca, che tutti i nodi vengano al pettine, si aspetta quella svolta che ne cambi completamente il ritmo, ma questa viene costantemente rimandata. C’è tanto lavoro di costruzione, questo è innegabile, sulle background stories dei vari personaggi e sull’atmosfera, che sicuramente ripagherà nella seconda metà della stagione, ma che a conti fatti sembra occupare un lasso di tempo (ed un numero di episodi) eccessivo. L’enorme dilatazione narrativa comporta inoltre la perdita di qualsivoglia effetto di paura o di tensione, in Hill House sono poche ed equamente distribuite le scene che sono pensate per fare paura (spesso sono fugaci jump scare senza conseguenze), ma non riescono mai a lasciare il segno per la loro limitata presenza rispetto alle sequenze puramente drammatiche e per la velocità con cui passano in secondo piano, come se fossero elementi accessori, peccato perché la storia invece è ricca di potenziale horror inespresso. Speriamo che venga sfruttato al meglio più avanti.
La vera sfida per gli spettatori sarà restare, resistere alla sfida alla pazienza lanciata da Mike Flanagan al suo pubblico, per scoprire come questo “very slow burn” arriverà ad una conclusione, sperando che nella seconda metà inizi a carburare sul serio o che, quanto meno, qualcosa inizi a muoversi su ritmi più consoni ad un horror.
VOTO: 6/10