Di Daniele Ambrosini
Basata sull’omonimo podcast creato da Eli Horowitz e Micah Bloomberg, e da loro riadattata, Homecoming è l’ultima serie arrivata sul catalogo di Amazon Prime Video, dove spicca come uno dei prodotti migliori. Dietro la macchina da presa c’è Sam Esmail, che dopo gli ottimi risultati ottenuti con Mr. Robot si conferma uno dei migliori registi del panorama televisivo attuale.
Heidi Bergman è un assistente sociale presso l’Homecoming Transition Center, una struttura governativa il cui compito dichiarato è quello di aiutare i reduci a reintrodursi nella società e a riprendere la loro vita da civili dopo il servizio militare. Heidi è la responsabile del programma e ha il compito di tenere sotto controllo i sintomi dello stress post traumatico, pur non avendo alcuna qualifica professionale. Passati quattro anni, Heidi non ricorda quasi niente del suo lavoro presso l’Homecoimng. Un revisore del dipartimento della difesa inizierà ad indagare su un reclamo anonimo nei confronti delle attività che si svolgevano all’interno della struttura, facendo riaffiorare vecchi ricordi, legati principalmente ad uno dei pazienti dalla struttura, Walter Cruz.
Sam Esmail, coadiuvato dal direttore della fotografia Tod Campbell, imposta la narrazione su coordinate visive ben precise: alle due differenti linee temporali che compongono la stagione, la prima ambientata nel 2018 e la seconda nel 2022, corrispondono due diversi aspect ratio ed una diversa gamma cromatica. Al 2018 corrisponde un widescreen 16:9 ed una fotografia improntata all’uso della luce naturale, mentre al 2022 corrisponde un claustrofobico 1:1 ed una palette dai toni grigi e desaturati. Una terza linea temporale ed un ulteriore cambio di rapporto d’immagine arrivano più in là nella stagione, ad arricchire il flashback portante del nono episodio. Solo apparentemente legati all’aspetto temporale della trama, questi accorgimenti registici sono in realtà legati alla psicologia della protagonista e ne sottolineano i cambiamenti e l’evoluzione. Nonostante queste evidenti variazioni che caratterizzano le varie sezioni di cui si compone la serie, Esmail mantiene uno stile di regia coerente nel corso di tutti gli episodi e singoli segmenti, portando ad Homecoming alcuni degli elementi che caratterizzano il suo lavoro in Mr. Robot, ma anche discostandosi da quanto fatto nella serie di USA Network. Grandi movimenti di camera, lunghi (ed apparenti) piani sequenza dai campi piuttosto ampi si alternano a primi piani, mezzi busti e soggettive a camera fissa, quasi sempre all’altezza degli occhi dei personaggi, contrariamente da quanto accade in Mr. Robot, dove la maggior parte delle inquadrature sono decentrate ed hanno una prospettiva dall’alto verso il basso. Da notare anche un inedito e magistrale uso dello split screen. Lontano dall’alienazione e dalla disillusione caratteristiche della sua prima serie, Esmail imposta una regia più intima, a misura dei suoi personaggi. Si tratta di uno dei lavori di regia migliori della tv attuale, ed è importante sottolineare come Esmail non sia un autore cinematografico affermato convertito al piccolo schermo, ma uno dei primi (e pochi) autori formatisi proprio in televisione. Un pioniere.
In grado di giocare con i generi Homecoming, è una serie drammatica che ha il sapore di un vecchio giallo, costantemente in equilibrio tra thriller hitchcockiano (gli omaggi e i riferimenti al regista inglese sono numerosi) e dramma romantico (pur senza mai esserlo del tutto). Una serie misurata, dove ogni elemento della trama viene magistralmente soppesato e messo in gioco al momento giusto, una serie dalla grande forza narrativa in grado di tenere alta l’attenzione dello spettatore pur avendo un ritmo molto disteso. Il formato ridotto dei singoli episodi, che si aggira intorno ai 30 minuti, permette agli autori di dipanare il loro racconto un piccolo passaggio di trama alla volta, inserendo in ogni episodio un punto di svolta, permette di concentrarsi su un aspetto della storia alla volta e di svilupparlo adeguatamente, con i suoi tempi, senza la necessità di accumulare elementi narrativi; ma allo stesso tempo la durata ridotta, ereditata dal formato del podcast e più vicina alle comedy che alle serie drammatiche, sembra essere un po’ limitante. La serie si guarda così volentieri e scorre così bene che si finisce per volerne vedere di più, ed è inevitabile chiedersi come sarebbe stata Homecoming con episodi da 40 o 50 minuti, con più tempo per approfondire e per sviluppare alcuni aspetti secondari della trama. Non che così com’è non sia abbastanza incisiva o riuscita, è solo un po’ troppo breve, soprattutto per essere una serie destinata al binge watching.
A dare il volto alla protagonista c’è una ritrovata Julia Roberts che nel 2018, dopo anni di film poco riusciti è finalmente riuscita a trovare dei ruoli interessanti e alla sua altezza, al cinema con Ben Is Back e in televisione grazie ad Homecoming. Il suo è un personaggio scisso, sorridente e rassicurante in una linea temporale, disilluso e rassegnato nell’altra. Un personaggio nel quale la Roberts si immerge completamente, riuscendo a rendere al meglio tutte le sue sfumature richieste da quella frattura interna che lo caratterizza. Ad affiancarla c’è il giovane Stephan James in un ruolo decisamente più sfaccettato e riuscito di quello che ha in Se la strada potesse parlare di Barry Jenkins, il film che lo ha recentemente portato alla ribalta. Nota di merito anche per Bobby Cannavale, interprete fin troppo sottovalutato, che qui interpreta Colin, un surrogato di antagonista, un personaggio ambiguo e pieno di sé a cui Cannavale dona una notevole spontaneità e ne enfatizza la supponenza. Ruoli ridotti, infine, per Shea Whigham, mai così informa, e per le due mamme della serie Sissy Spacek e Marianne Jean-Baptiste, che riescono a brillare nonostante le poche scene a loro disposizione.
Homecoming è un trionfo di forma, un racconto dalla innegabile forza cinematografica e narrativa, che si guarda (forse troppo) velocemente e che finisce in modo perfetto. Quell’ultima scena (quel preciso fotogramma in particolare) è carica di una forza simbolica e di una tensione emotiva da fare invidia al miglior cinema indie. Una conclusione che guarda al futuro, che apre a numerose possibilità per la già annunciata seconda stagione, ma che allo stesso tempo chiude in modo perfetto l’arco narrativo del tutto indipendente portato avanti in questa stagione. Ciò che verrà dopo sarà per forza di cose un estensione (quasi un sequel) di questo primo, breve racconto dove tutto torna e dove tutti i pezzi vanno lentamente al proprio posto.
VOTO: 8,5/10