Di Daniele Ambrosini
Il tanto atteso gran finale della sesta stagione di Homeland alla fine è arrivato, portando con sé molte sorprese ed alcune conferme. America First è un episodio curiosamente bipartito ed è un ottimo esempio dei pregi e dei difetti che hanno caratterizzato tutta la stagione che, ora possiamo dirlo, non ha portato avanti la (stanca) linea narrativa nel migliore dei modi: solo il materiale omesso in questo dodicesimo episodio avrebbe potuto risollevare le sorti di una parte centrale di stagione piuttosto fiacca e priva di spunti accattivanti.
Nella prima parte dell’episodio assistiamo alle conseguenze dell’esplosione avvenuta alla fine dell’episodio precedente che porta a temere un possibile nuovo pericolo per la presidente Keane. Dar Adal continua sulla sua linea dura e sempre meno convenzionale, rapendo addirittura un senatore per raggiungere il suo scopo, nel frattempo il pericolo alla Keane diventa reale: un allarme bomba convince il suo staff ad evacuare l’albergo dove si trovava ma Carrie viene dissuasa da Dar e riesce a fermare la macchina della presidente giusto in tempo: le auto della scorta sono state colpite all’uscita dell’albergo. Si trattava di una trappola.
Sta a Carrie e al capro espiatorio Peter Quinn risolvere la situazione e portare in salvo la Keane in questa prima metà adrenalinica e ben strutturata. Se gestita con maggiore intelligenza questa sezione avrebbe potuto essere riadattata per occupare un intero episodio, e sarebbe stato un episodio pieno d’azione ed intrighi ai livelli di “13 Hours in Islamabad”; e la seconda metà avrebbe avuto lo sviluppo che meritava di avere in un episodio conclusivo più pacato ma comunque denso come quel “Long Time Coming” che chiuse la riuscitissima quarta stagione.
La seconda metà dell’episodio si svolge sei settimane dopo l’attentato e si concentra principalmente sui risvolti politici: infatti la Keane che si era presentata come una presidente liberale e comprensiva si sta mostrando sempre più intransigente e repressiva. Buona parte dei suoi collaboratori sono stati arrestati in seguito ad un’estensione del Patriot Act, voluto dal conservatore George W. Bush nel 2001. Carrie sembra speranzosa che tutto questo finisca e vede nella presidente le migliori intenzioni, la Keane crede molto in lei, tanto da offrirle un ruolo di rilievo alla Casa Bianca.
In quelle sei settimane è successo di tutto, molti momenti importanti sono passati senza che noi ne prendessimo parte: l’insediamento della Keane e l’arresto e l’incarcerazione di Dar Adal per esempio.
“America First” chiude tutte le trame principali della stagione ma senza davvero spiegare come, non è infatti chiaro il ripensamento finale della Keane, il reale coinvolgimento di Dar o il ruolo delle forze dell’ordine designate alla protezione della presidente nell’attentato. Quest’ultimo episodio va incontro ad uno dei difetti che maggiormente ha segnato la tormentata seconda stagione di True Detective: la tendenza a voler aggiungere elementi nuovi alla trama fino all’ultimo, aggiungendo nomi a cui il pubblico non fa in tempo ad abituarsi per poi renderli colpevoli, tutto questo senza fornire le necessarie spiegazioni ma addirittura saltando parti del racconto per concentrarsi sulle conseguenze.
Molta attenzione è data al “dopo”, al momento in cui i giochi sono cambiati – non importa il processo che ha portato a questo momento – ed il futuro sembra diverso, incerto. Carrie è di nuovo divisa tra la vita privata e l’aspetto professionale: a gravare su di lei la lontananza (ormai prossima alla fine) della figlia ma soprattutto la morte di Peter Quinn che sembra ricalcare lo stesso percorso emotivo generato in lei dalla morte di un altro personaggio principale quale era quel Nicholas Brody la cui storia ha sorretto le prime tre stagioni, si pensi che Carrie uscirà come una madre anche da questo lutto. Eppure il pubblico era preparato alla morte di Quinn fin dal finale della stagione precedente e la sua storyline era diventata così futile da desiderare un finale degno per il personaggio.
L’episodio ha almeno tre aspetti decisamente positivi: la regia controllata e ben bilanciata della storica regista della serie Lesli Linka Glatter e le interpretazioni intense e pienamente convincenti di Claire Danes ed Elizabeth Marvel. Qualche possibilità agli Emmy c’è ancora ma se la serie non dovesse rientrare non sarebbe una sorpresa, siamo di fronte alla stagione più stanca della serie insieme alla precedente, non priva di spunti interessanti ed episodi riusciti ma pur sempre non all’altezza del suo potenziale. Chissà che il futuro non ci riservi un ritorno in Medio Oriente e ai fasti delle prime stagioni, se così non fosse Homeland può dirsi definitivamente finita a due stagioni dalla sua effettiva conclusione.
VOTO: 7,5/10