House of Cards – La recensione della stagione finale firmata Netflix

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Di Simone Fabriziani

In uno dei finali di serie più discussi ancor prima di toccare il piccolo schermo, ha debuttato su Netflix nel weekend passato (ma in Italia sul canale satellitare Sky Atlantic) la sesta ed ultima stagione di House of Cards, questa volta con protagonista assoluta la luciferina Claire Underwood interpretata da Robin Wright.

Una vera e propria sfida in fase di scrittura quella adottata dagli showrunner Melissa James Gibson e Frank Pugliese (eredi della tenuta di ben quattro stagioni di Beau Willimon, creatore della serie) dopo il licenziamento in tronco del co-protagonista Kevin Spacey a seguito della pioggia di accuse di molestie sessuali sul set ed in passato.Ci è voluto del fegato per incorniciare una intera stagione televisiva sul volto e gli occhi azzurri di Claire Underwood (una Robin Wright più magnetica che mai), accollandosi il peso stesso della valenza della serie politica di Willimon sulle spalle della donna dietro il successo alla Casa Bianca del protagonista maschile. Eppure, la sfida della scrittura in divenire per quelle che già era stata preannunciata come la stagione finale riesce e a metà e non convince affatto.
Cinque episodi in men rispetto alla tradizionale tenuta dei capitoli precedenti, la stagione finale di House of Cards risulta un’opera mozza e superficiale, dove la forza e la dinamicità delle relazioni tra i vari protagonisti viene sacrificata all’apologia stucchevole e santificata di un racconto di female empowerment racchiusa nella ascesa alla Presidenza degli Stati Uniti del personaggio interpretato dalla Wright mascherato da capitolo conclusivo votato ad una conclusione (tranquilli, niente spoiler) senza via di uscita, disperante e plumbea.
Per chi attende la risoluzione dei cavilli narrativi delle precedenti puntate rimarrà deluso, il sesto appuntamento con il political drama di Gibson e Pugliese è questa volta troppo preoccupato a onorare l’eredità del deceduto (per forza di cose) Frank Underwood e scrollarsi di dosso la connivenza che aveva delineato con forza la relazione tra i due coniugi nel passato. E dunque fuori il vecchio e via il nuovo, che bisogna portare a termine un lavoro, con o senza Spacey, che, pur nella difformità di un’opera mutilata e dai connotati di patchwork narrativo, ha il sapore di un lavoro portato a dovuto compimento per etica professionale. Nota di merito allo straordinario Michael Kelly, il cui Doug Stamper conclude il suo arco narrativo con una nota dal sapore di tragedia classica, e l’inedita coppi di fratelli coltelli Diane Lane e Greg Kinnear.
VOTO: 6/10




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