I morti non muoiono – La recensione della commedia zombie di Jim Jarmusch presentata a Cannes

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Di Simone Fabriziani

Nella sonnolenta cittadina di Centerville qualcosa non va come dovrebbe. La luna splende più del solito, le ore di luce del giorno diventano imprevedibili e gli animali cominciano a mostrare insoliti comportamenti. Nessuno sa bene perché. Le notizie sono spaventose e gli scienziati sono preoccupati ma nessuno di loro prevede la piaga, strana e pericolosa, che in breve tormenta Centerville: i morti non muoiono! Uscendo dalle loro tombe, attaccano i viventi e li trasformano nei loro banchetti. I cittadini dovranno combattere come possono per sopravvivere. Da giovedì 13 giugno arriva nelle sale italiane I morti non muoiono, film di apertura della kermesse del 72° Festival di Cannes.

Il nuovo lungometraggio scritto e diretto dal feticcio del cinema americano indie Jim Jarmusch omaggia e celebra con sguardo malinconico e ironicamente posato il cinema zombie di ieri ed oggi a partire dalle innovazioni della fine degli anni ’60 di George A. Romero fino alle nuove mode pop della serialità di The Walking Dead. Ma non mancano le sofisticherie di dovere del cinema di Jarmusch, qui imbrigliato in un gioco narrativo dalle ambizioni satirico-parodistiche che, partendo da un assunto meramente dissacrante, si risolve però in un esercizio di stile sterile e senza un focus pregnante.

Supportato da un cast di devoti del cinema di Jarmusch (Bill Murray, il “novellino” Adam Driver dopo il successo di critica del precedente Paterson, la sibillina Tilda Swinton), I morto non muoiono sembra funzionare più come riflessione metacritica sull’eredità del cinema zombie, che Jim Jarmusch qui dichiara apertamente in una spiazzante sequenza che squarcia in maniera inaspettata la quarta parete della realtà/finzione che non come riflesso della società americana odierna.


Certo, una sonnolenta cittadina ottusa della provincia americana viene “risvegliata” dalla resurrezione improvvisa dei cari estinti dalle loro tombe in preda a fameliche voglie consumistiche (satira fin troppo flebile e telefonata), non mancano i riferimenti gustosi all’immaginario pop del genere né la costruzione di personaggi inetti fish out of water tanto cara al regista indie statunitense. A mancare è un’idea dietro alla messinscena che ne giustifichi la presenza nel lungo curriculum dietro la macchina da presa dell’autore di Daunbailò e Broken Flowers; è proprio in questo frangente che la sensazione di déja vu si mescola con il sapore amaro del “tutto qui”?


VOTO: 6/10